
Da oltre un secolo il punto di forza della produzione FIAT sono le utilitarie e le vetture di piccole dimensioni; city car, come le chiamiamo da qualche decennio.
Non è un demerito. Riuscire a produrre una vettura efficiente, funzionale, longeva, nei limiti imposti dalla produzione in serie e rimanendo all’interno di un prezzo finale di fascia popolare e concorrenziale, è difficilissimo. Molti produttori, spesso sinonimo di buona ingegneria e qualità, per lunghissimo tempo non tentarono l’inserimento in questa fascia di mercato. Non per disinteresse, ma per l’aver sempre prodotto utilizzando parametri costruttivi ben più generosi, ripiegando così alle collaborazioni per tale mercato (con FIAT in partnership, pensiamo a General Motors, Ford, BMW, Saab, Suzuki, Lada…). Oppure, quelli che preferirono la strada della produzione in proprio, impiegarono decenni prima di poter replicare prodotti simili, aiutati proprio dall’ingegneria italiana.

Un simpatico aneddoto: quando Volkswagen pianificò la produzione di una vettura economica e funzionale per superare la crisi che stava attraversando a fine anni ’60 / inizi ’70, chiamò a Wolfsburg Giorgetto Giugiaro. Il designer italiano trovò davanti a sé una situazione paradossale: una FIAT 128 totalmente smontata, con intorno ingegneri tedeschi che annotavano millimetro per millimetro le dimensioni interne ed esterne dell’utilitaria. Gli ingegneri Volkswagen spiegarono: “Noi, non riusciamo a fare un’auto così compatta ma tanto abitabile e con un vano bagagli altrettanto grande. Ci provi lei” e riferendosi ancora alla 128 “Non possiamo ottenere tanto ma ci accontentiamo”.

Nacque così la Golf.
Una delle vetture più vendute al mondo, tedesca, fu affidata al progetto di un italiano. E non fu un caso.
L’Italia automobilistica era quella della Topolino, 600, Nuova 500, la già citata 128, 126, 127, Uno… fino alla Panda, l’auto più geniale (sotto il profilo d’innovazione, soluzioni e progettazione) degli ultimi quarant’anni.


Queste righe, lontane da ogni sciovinismo, per introdurre una delle prime strategie industriali del gruppo Stellantis, il colosso automobilistico nato dalla fusione di FCA (Fiat, Chrysler) e il Gruppo PSA (Citroën, Peugeot).
La scorso mese FCA ha inviato una lettera ai fornitori italiani per comunicare la sospensione delle attività con effetto immediato, sia di produzione che ricerca, dato che le vetture di segmento B (utilitarie e citycar) verranno prodotte su base e piattaforma francese.
Per comprendere l’impatto sociale ed economico della scelta, basta leggere i numeri connessi all’indotto FIAT per la produzione di tali vetture: 58.000 operai, 1000 aziende e volume di affari da 18 miliardi di euro (un’automobile viene principalmente costruita fuori dalla fabbrica di produzione, dove si compie il solo assemblaggio).
Confermata la piattaforma CMP della Citroën 208 per costruire la Nuova Lancia Ypsilon; di pochi giorni fa la notizia dell’uso della stessa piattaforma per la progettazione della Nuova FIAT Punto, la vettura italiana più venduta degli ultimi tre decenni.

L’impatto di questo terremoto non è stato ancora compreso nella sua interezza, non solo per l’aspetto industriale e commerciale, ma anche per l’immagine del Made in Italy a livello internazionale, che vedeva nell’industria automobilistica uno dei suoi prodotti maggiormente riconoscibili. Non ultimo e sicuramente il più importante, il costo sociale.
Questo è il processo finale di quella “ristrutturazione” su stampo Marchionne, che affonda a piene mani nell’eredità manageriale Romiti (pace alle anime loro, meno per le nostre), che ha visto e vede la spoliazione di un’azienda sacrificata al dividendo azionario.
Legittimo per un’azienda privata, molto meno se applicato al Gruppo FIAT, che ha visto la sua potenza industriale basarsi sugli enormi aiuti, concessioni, agevolazioni fiscali, cessioni di terreni demaniali da parte dello Stato italiano.
Non ultima la garanzia pubblica sui 6,3 miliardi di euro richiesti come finanziamento per il post-Covid.

La radice di tutto va cercata nei dividendi generati per la Exor N.V., holding finanziaria della famiglia Agnelli-Elkann, tassati in territorio inglese, dato che la sede fiscale della nuova Stellantis rimarrà ben salda a Londra.
Solo negli ultimi 3 anni la Exor N.V. ha incassato una cifra in dividendi simile alla richiesta di finanziamento a pubblica garanzia, circa 6 miliardi di euro, di cui 2 miliardi per la vendita di Magneti Marelli ai giapponesi, altra eccellenza italiana andata perduta.
Oggi la fusione di FCA e PSA renderà felici proprio gli Agnelli-Elkann, che incasseranno la maggior parte dei 5,5 miliardi di dividendo previsto per gli azionisti.
Operazione che porta, come visto, grandi vantaggi economici per il gruppo Exor, ma un potere decisionale e industriale tutto a favore dei francesi, con Amministratore Delegato della nuova Stellantis nella figura di Carlos Tavares, già a capo del gruppo PSA, e una suddivisione delle quote azionarie che sulla carta è stato reso pubblico come paritetico al “50-50”, ma a conti fatti vede i francesi detenere il 60,15% del nuovo pacchetto azionario, a fronte del 39,85% per FCA (spiegato in maniera esaustiva qui).
Le prime notizie sulle strategie industriali, come visto per Lancia Y e FIAT Punto, ci confermano proprio questo.

La grandezza di FIAT si è sempre basata sul lavoro e le intuizioni di geniali ingegneri, dalle innovazioni continue del Centro Ricerche Fiat e del Centro Elasis (servirebbe un articolo solo per questo), dal lavoro di centinaia di migliaia di operai, tanto del nord quanto del sud, prima carne sacrificabile ad ogni timida flessione delle entrate, nonostante FIAT abbia beneficiato fin dalla sua fondazione, come accennato poco sopra, di continui e cospicui aiuti finanziari pubblici, dal versamento diretto di liquidità agli ammortizzatori sociali, fino alla donazione di terreni di proprietà pubblica, per una cifra totale difficilmente calcolabile, sull’ordine di svariati miliardi di euro. Soldi pubblici, risorse collettive.

Come per altri marchi simbolo dell’Italia nel mondo, anche per l’azienda che ha rappresentato lo sviluppo (e a volte anche il progresso) di un paese intero dal dopo guerra in poi, scende l’irreversibile tramonto, esempio (forse il più grave) della fine industriale di una nazione.
Ma ora, stiamo molto attenti ad attribuire le dovute motivazioni: che non si parli di crisi, d’ingerenza straniera, dell’ascesa dei mercati asiatici o altri piagnistei da industriale. In questo caso, l’interesse privato sotto forma di dividendo ha giocato il ruolo da protagonista calpestando quello aziendale (rimanendo nella sfera valutativa liberista) e senza il minimo scrupolo per la storia di un’azienda, di quello che rappresenta e per il costo sociale derivato, ignorando le proprie radici segnate dall’intervento pubblico.
Tuttavia, questa è solamente una delle migliori e più coerenti storie del liberismo economico, completo e realizzato.
Siete ancora convinti che, in fondo, sono i privati che creano ricchezza e lavoro per il Paese?
LINK:
Il nazionalismo nelle pubblicità, le sedi legali all’estero. FCA e Mediaset.
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