
Serata Romana
Dove vai per le strade di Roma,
sui filobus o i tram in cui la gente
ritorna? In fretta, ossesso, come
ti aspettasse il lavoro paziente,
da cui a quest’ora gli altri rincasano?
E’ il primo dopocena, quando il vento
sa di calde miserie familiari
perse nelle mille cucine, nelle
lunghe strade illuminate,
su cui più chiare spiano le stelle.
Nel quartiere borghese, c’è la pace
di cui ognuno dentro si contenta,
anche vilmente, e di cui vorrebbe
piena ogni sera della sua esistenza.
Ah, essere diverso – in un mondo che pure
è in colpa – significa non essere innocente…
Va, scendi, lungo le svolte oscure
del viale che porta a Trastevere:
ecco, ferma e sconvolta, come
dissepolta da un fango di altri evi
– a farsi godere da chi può strappare
un giorno ancora alla morte e al dolore –
hai ai tuoi piedi tutta Roma…
Scendo, attraverso Ponte Garibaldi,
seguo la spalletta con le nocche
contro l’orlo rosicchiato della pietra,
dura nel tepore che la notte
teneramente fiata, sulla volta
dei caldi platani. Lastre d’una smorta
sequenza, sull’altra sponda, empiono
il cielo dilavato, plumbei, piatti,
gli attici dei caseggiati giallastri.
E io guardo, camminando per i lastrici
slabbrati, d’osso, o meglio odoro,
prosaico ed ebbro – punteggiato d’astri
invecchiati e di finestre sonore –
il grande rione familiare:
la buia estate lo indora,
umida, tra le sporche zaffate
che il vento piovendo dai laziali
prati spande su rotaie e facciate.
E come odora, nel caldo così pieno
da essere esso stesso spazio,
il muraglione, qui sotto:
da ponte Sublicio fino sul Gianicolo
il fetore si mescola all’ebbrezza
della vita che non è vita.
Impuri segni che di qui sono passati
vecchi ubriachi di Ponte, antiche
prostitute, frotte di sbandata
ragazzaglia: impure traccie
umane che, umanamente infette,
sono lì a dire, violente e quiete,
questi uomini, i loro bassi diletti
innocenti, le loro misere mete.
Pier Paolo Pasolini
da La religione del mio tempo
Garzanti, 1961

Foto: Il Giornale del Riccio
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