Pubblicato il 2 Novembre 2015
Ogni epoca ha il suo punto di riferimento.
Politico, culturale, intellettuale.
Uno di quelli italiani, europei, di tutti, lo perdemmo quarant’anni fa…
Senza cadere nella retorica del “uno dei più grandi intellettuali del novecento”, che seppur vero, oggi guardandoci intorno, diventano parole vuote…
Perché se Pasolini sui libri, nei versi, nelle pellicole è un punto di riferimento, una luce in questa società consumistica che continuamente ha profetizzato, di certo non possiamo dirlo nella realtà di tutti i giorni; la realtà in cui ha vinto la “non cultura” piatta e totalizzante “dell’uomo medio”, rappresentanza del pasoliniano male assoluto:
il consumatore.
“è un mostro…
un pericoloso delinquente…
conformista…
colonialista…
razzista…
schiavista…
qualunquista…”Sull’uomo medio.
da “La Ricotta”, nel film “Ro.Go.Pag.”
A quel grande intellettuale, a quel nostro conterraneo, gli abbiamo veramente reso giustizia? E questa parola, giustizia, si carica di ogni significato: culturale, sociale, e soprattutto, giudiziario…
No… purtroppo, no…
Non gliene rendiamo quando la continua retorica di destra, borghese, fascista, troppo spesso anche di sinistra, distorce il suo pensiero nell’articolo “Il PCI ai giovani” del 1968, facendo passare Pasolini per uno “di sinistra che stava dalla parte della polizia”, senza leggere tutto il suo articolo, soffermandosi su sparute frasi, decontestualizzate, tratte dallo stesso articolo che chiama gli studenti “quei mille o duemila giovani miei fratelli che operano a Trento o a Torino, a Pavia o a Pisa, a Firenze e un po’ anche a Roma”, che li colloca, comunque, “dalla parte della ragione” e la polizia “dalla parte del torto”; non un elogio alla polizia, ma un’esortazione a quei giovani a riprendere in mano “l’unico strumento davvero pericoloso per combattere contro i padri: ossia il comunismo”.
Accusa di filo-repressione a chi scriveva nel 21 Dicembre 1968, dopo l’ennesimo assassinio per mano poliziesca:
“Disarmare la polizia significa infatti creare le condizioni oggettive per un immediato cambiamento della psicologia del poliziotto. Un poliziotto disarmato è un altro poliziotto. Crollerebbe di colpo, in lui, il fondamento della ‘falsa idea di sé’ che il Potere gli ha dato, addestrandolo come un automa.”
Non gliene rendiamo quando dimentichiamo che per quindici anni rimane ostaggio della magistratura con una continua persecuzione alla sua arte, alla sua opera, al suo pensiero e alla sua persona, con oltre trenta processi, risolti senza condanne, insieme a denunce, fermi, perquisizioni; i testimoni per l’accusa, da cui partivano soventi denunce, erano ufficiali, agenti della pubblica sicurezza e dei carabinieri. Commentando il suo film “Accattone”, così descrive un’eredità del fascismo trasmessa alla Repubblica democristiana:
“ La spietata, criminaloide, insindacabile violenza della polizia.”
Non gliene rendiamo quando ancora oggi, si parla di omicidio per conto di balordi e mere motivazioni economiche e sessuali, nonostante Pino Pelosi, con lui nelle ultime tragiche ore, ribadirà più volte, sia a poche ore dall’omicidio che a distanza di decenni, il «se parlo rischio grosso, il pericolo è dietro l’angolo per me»;
nonostante le continue aggressioni che il regista subiva da parte di fascisti, tutte prontamente archiviate dalla magistratura;
nonostante il caso fu chiuso poche ore dopo con una sommaria sentenza di accusa al Pelosi;
nonostante il luogo del delitto fu vergognosamente inquinato da rilevamenti sommari;
nonostante il ghigno sul volto di un poliziotto della scientifica, fotografato vicino al corpo maciullato di Pasolini;
nonostante le percosse subite dal regista non erano provocabili da un ragazzino di 17 anni;
nonostante il pezzo di legno preso in esame e attribuito come arma per le percosse era marcio e, anch’esso, non poteva provocare tali ferite;
nonostante le pellicole del film “Salò o le 120 giornate di Sodoma” furono rubate e Pasolini si stava recando a un appuntamento a Ostia per recuperarle, dopo una telefonata anonima e relativa alla richiesta di un riscatto;
nonostante nella vettura, la sua Alfa Romeo GT 2000, furono trovati plantari che non appartenevano ne a Pasolini ne a Pelosi;
nonostante gli attacchi e le denunce che Pasolini non risparmiava al potere, democristiano, fascista, occulto, fino al coraggioso articolo “Cos’è questo golpe? Io so” in cui si da un volto e una collocazione ai colpi di stato che continuamente si susseguono in Italia negli anni sessanta e settanta sotto forma di attentati, rendendolo un personaggio estremamente scomodo e necessariamente “da eliminare” (articolo completo a fine pagina);
nonostante la telefonata di Oriana Fallaci al redattore capo del “Corriere della Sera” Antonio Padellaro: “Sono Oriana Fallaci. Padellaro, ascolta bene: Pasolini è stato ucciso dai fascisti. DAI FASCISTI, devi scriverlo”;
nonostante tutto, nessuna vera, reale e seria indagine è stata fatta per l’omicidio Pasolini, archiviata ancora con il movente sessuale ed economico.

E non gli renderemo giustizia nemmeno oggi, in questo quarantesimo anniversario; non gli renderanno giustizia le istituzioni, che oggi lo ricordano con qualche lettura in teatro, qualche evento di periferia… e poi?
In Italia, la classe dominante, la sua odiata “borghesia”, nel creare una nuova ignoranza, non quella ingenua e innocente dei ragazzi di “Accattone”, ma quella adornata di superficialità, caducità, disprezzo per la cultura, eliminando il sentimento di ricerca del sapere e sostituito con una coscienza collettiva pregiudiziale, di omologazione non nell’essere ma nell’avere, costruita all’interno di quella “terribile gabbia” che è la televisione; ha ucciso il messaggio tremendamente profetico di Pasolini, rendendolo realtà…
Quelle parole, anche se sporadicamente citate e ricordate come in queste occasioni, sono inutili se non valorizzate da una conoscenza continua e formativa della memoria, in tutti i campi, e nel caso specifico di Pasolini, del suo essere “profeta”. Meglio… attento osservatore.
Frutto della sua cultura, del suo credo politico, dell’attenta esplorazione di quegli ingranaggi che compongono la società e la sua straordinaria comprensione della realtà; ci ha donato moniti che oggi, forti, arrivano dai suoi scritti e interviste:
“Secondo me la televisione è più forte di tutto questo e la sua mediazione ho paura che finirà per essere tutto. Il potere vuole che si parli in un dato modo ed è in quel modo che parlano gli operai appena abbandonano il mondo quotidiano, familiare o dialettale in estinzione. In tutto il mondo ciò che viene dall’alto è più forte di ciò che si vuole dal basso, non c’è parola che un operaio pronunci in un intervento che non sia voluta dall’alto; ciò che resta originario nell’operaio è ciò che non è verbale, per esempio la sua fisicità, la sua voce, il suo corpo.”
Nel momento della loro stesura, questi preziosi moniti non erano comprensibili ad alcuni per motivi storici, dato che è difficile comprendere un cambiamento quando ne fai parte; per altri, perché uscite dalla bocca di un “communista e culattone”. Oggi, invece, impossibili da recepire per l’attuale “uomo-consumatore”.
Curioso come i due più grandi intellettuali del novecento italiano, Antonio Gramsci e Pier Paolo Pasolini, siano così legati nelle loro vicende intellettuali e di vita: uccisi non dalle stesse mani, ma da persone ideologicamente uguali; semi-ignorati nelle università italiane, ma i più studiati in quelle estere; all’estero amati, ma in Italia, la loro casa, culturalmente, moralmente dimenticati. Peggio… Incompresi.
Tragico e cinico se proprio Pasolini insegnava che:
“La morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi.”
Pasolini lo troviamo nella poesia, nella letteratura, nel cinema, con contributi che spaziano dalla politica alla filosofia; la sua opera è una ricerca continua della verità, un affrontare, a spese della propria vita, l’ingiusto potere costituito e donare coscienza sociale, culturale e morale alla massa.
Ma da queste figure (in accordo o in disaccordo con il loro pensiero), che hanno speso la propria vita per dare il proprio contributo alla cultura e coscienza di un paese e di una classe sociale, la sinistra (ma in generale il paese) ha l’obbligo morale di ripartire, come in passato con altre grandi figure si gettarono le basi per crearla. Solo così, comprendendo e attualizzando questi insegnamenti, renderemo giustizia alla loro opera, alla loro persona.
Senza questo, per colpa della sfrenata, potente, decadente, vittoria in occidente del neoliberismo, non ci saranno le condizioni tali per vedere ancora tra di noi, nuovi maestri e nuovi profeti.
Da qui dobbiamo ripartire, da chi in questi quarant’anni ha continuato a insegnare, senza trovare dinanzi a se… molti scolari…
Marcello Colasanti
Versione integrale dell’articolo:
COS’E’ QUESTO GOLPE? IO SO
di Pier Paolo Pasolini
Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del “referendum”.
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo”, sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ’68 non è poi così difficile.
Tale verità – lo si sente con assoluta precisione – sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all’editoriale del “Corriere della Sera”, del 1° novembre 1974.
Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.
Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi – proprio per il modo in cui è fatto – dalla possibilità di avere prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
All’intellettuale – profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana – si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici.
Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al “tradimento dei chierici” è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un’opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.
È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all’opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.
Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario – in un compatto “insieme” di dirigenti, base e votanti – e il resto dell’Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un “Paese separato”, un’isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel “compromesso”, realistico, che forse salverebbe l’Italia dal completo sfacelo: “compromesso” che sarebbe però in realtà una “alleanza” tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell’altro.
Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo.
La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l’altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività.
Inoltre, concepita così come io l’ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l’opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere.
Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch’essi come uomini di potere.
Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch’essi hanno deferito all’intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l’intellettuale viene meno a questo mandato – puramente morale e ideologico – ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore.
Ora, perché neanche gli uomini politici dell’opposizione, se hanno – come probabilmente hanno – prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono – a differenza di quanto farebbe un intellettuale – verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch’essi mettono al corrente di prove e indizi l’intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com’è del resto normale, data l’oggettiva situazione di fatto.
L’intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso – in questo particolare momento della storia italiana – di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l’intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che – quando può e come può – l’impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l’intera classe politica italiana.
E lo faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi “formali” della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico – non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento – deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.
Probabilmente – se il potere americano lo consentirà – magari decidendo “diplomaticamente” di concedere a un’altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon – questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.
Corriere della Sera, 14 novembre 1974
RIPRODUZIONE RISERVATA.
ARTICOLO SCRITTO PER “IL GIORNALE DEL RICCIO”, VIETATO COPIARNE IL CONTENUTO ANCHE PARZIALE SU ALTRI SITI.
CHIEDIAMO GENTILMENTE DI CONDIVIDERE DIRETTAMENTE IL LINK DELL’ARTICOLO E DEL RELATIVO FACEBOOK.
GRAZIE PER LA DIFFUSIONE.
3 pensieri riguardo “Quarant’anni senza Pasolini: il delitto continuo alla sua memoria.”