di Beatrice Gallucci.
Nella primavera del 1836, mentre a Napoli dilaga un’epidemia di colera, ospite nella villa Ferrigni di Torre del Greco, alle falde del Vesuvio, Leopardi compone i suoi due ultimi canti La ginestra, o il fiore del deserto e Il tramonto della luna.
Quelle de La ginestra sono dunque le ultime parole poetiche lasciate da Leopardi alle soglie di una morte tanto prematura quanto lungamente preannunciata, iscritta drammaticamente nella biografia e nell’esperienza artistica del poeta sin dalla prima giovinezza. È possibile riconoscere alla canzone un duplice andamento: se da una parte è una summa dell’itinerario poetico leopardiano, “supremo messaggio etico-filosofico espresso interamente in una suprema forma poetica”[1], dall’altra schiude nuclei d’innovazione, si apre su orizzonti di novità filosofico-concettuali. Il meccanismo di dialettica tra continuità e innovazione è caratteristico del sentire e pensare leopardiano, sempre in assidua, inarrestabile mutazione e maturazione, in cui saldi elementi e temi chiave – spesso presentati in contrapposizione binaria – si riplasmano frequentemente all’interno di un quadro mai statico. Anche La ginestra si muove entro questi due poli di continuità e innovazione.
La prima strofa presenta i due protagonisti del componimento, il Vesuvio e la ginestra, ossia la natura e il soggetto. La scissione irriducibile tra essi è il punto di partenza, la base indiscussa da cui prende le mosse lo snodo filosofico del discorso.[2] Ma se la natura è la stessa ignara sterminatrice del pensiero leopardiano maturo, incontrata dall’islandese nel suo disperato viaggio alla ricerca di un luogo benevolo, “nemica scoperta degli uomini”, “degli altri animali”[3] e di tutte le proprie creature, volta a ben altri e ben più alti scopi che la felicità o infelicità degli uomini (“Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo […]”[4]), il soggetto invece, la ginestra, presenta caratteristiche di novità. Detentrice di un destino di solitudine, fragile e dignitosa, essa fiorisce lungo le falde del temibile vulcano e sfida incurante il deserto petroso circostante. Fiore gentile, amante dei luoghi obliati dal mondo e compagna delle sorti infelici, si fa portatrice delle istanze e delle ragioni della stessa poesia. I primi versi della canzone sembrano quasi suggerire che nessun’altra forma vivente osi accostarsi a quelle aride pendici, latrici di morte, dove la ginestra ha dimora («La qual null’altro allegra arbor né fiore»). Essa invece pare animata da un’intima volontà di esistenza-resistenza, volontà non di sfida verso la natura, a cui dovrà necessariamente soccombere, ma di estrinsecare il proprio essere, che, nella sua natura di “fior gentile” non può che allegrare, abbellire e consolare il deserto circostante, diffondendo il suo dolcissimo profumo. La ginestra, «Contenta dei deserti», «di tristi / Lochi e dal mondo abbandonati amante, / E d’afflitte fortune ognor compagna», non è in rivolta verso la natura, non si affanna, non vagheggia altra dimora, ma aspetta eroicamente, senza opporre resistenza, che la colata di lava la travolga. L’ironico invito a visitare tali luoghi, sulle cui rive sono dipinte «Le magnifiche sorti e progressive» dell’umanità, rivolto a chi «d’esaltar con lode / Il nostro stato ha in uso», onde possa valutare la potenza, ossia la nullità dell’uomo rispetto alla natura, è posto in chiave di sarcasmo antiprogressista. La seconda strofa si presenta sotto forma di una lunga apostrofe al diciannovesimo secolo, chiamato a specchiarsi nell’opaca e grigia distesa di lava pietrificata. Qui compare la voce dell’io scrivente, che dichiara di non essere disposto ad adulare con vergogna il proprio tempo e le tendenze ad esso relative, ma si mostra deciso a manifestare apertamente il disprezzo che ne sente, a costo dell’oblio perenne. In questo modo Leopardi si astrae dal suo secolo, se ne chiama fuori, con una “perentoria affermazione della sua personale distinzione da quegli intellettuali in mala fede che adulano il «secol superbo e sciocco» («non io / con tal vergogna scenderò sotterra; / ma il disprezzo piuttosto che si serra / di te nel petto mio / mostrato avrò quanto si possa aperto»)”[5]. La temperie spirituale dominante è messa sotto accusa: il motivo polemico è ricorrente nella produzione del tardo Leopardi, dal Dialogo di Tristano e di un amico ai Paralipomeni della Batracomiomachia, e si spiega qui in veste poetica contro le concezioni spiritualistiche tornate sull’onda del romanticismo da una parte e contro le idee progressiste dall’altra. La condanna polemica abbraccia tutte le ideologie reazionarie e liberal-moderate dell’età della Restaurazione, dall’ottimismo nel progresso degli “amici di Toscana”, cui è indirizzata la Palinodia, agli esponenti dello spiritualismo cattolico, chiamati in causa ne I nuovi credenti. La ragione è considerata l’unico baluardo che permette all’uomo di prendere coscienza delle crude dinamiche della natura. La ginestra è un nuovo alter ego del poeta (così come lo era Tristano, nell’omonimo dialogo), giunto a uno stadio di maturazione estetico-filosofica tale da poter definire questo canto “il più vigoroso ed alto dei «messaggi» dei grandi poeti dell’epoca romantica” e addirittura “la poesia più grande degli ultimi due secoli.”[6] L’anima nobile è quella che ha l’ardimento di ergersi contro il fato comune e di confessare il male che è stato dato in sorte alle creature viventi, non detraendo in questo modo nulla alla verità, valore cardine della visione esistenziale dell’autore. La grandezza e la forza risiedono, contrariamente al giudizio comune, non nell’ostentazione di una felicità priva di fondamento, ma nel mostrare apertamente il patimento, non incolpando gli altri uomini del proprio dolore, ma «quella / Che veramente è rea, che de’ mortali / madre è di parto e di voler matrigna». Contro la natura l’anima nobile considera gli uomini confederati tra loro, “l’umana compagnia” ordinata per far fronte alla “guerra comune”: resistenza necessaria, di cui la ginestra è simbolo. La terza strofa scende dalla collettività al singolo; due tipi umani sono presentati in contrapposizione: l’uomo magnanimo e nobile e “l’intellettuale spiritualista e perfettibilista, che si ritiene destinato al piacere non volendo riconoscere la sua sicura sorte mortale, le sue inevitabili sofferenze.”[7] La sostanziale differenza tra i due risiede nell’onestà e umiltà del primo di far mostra del “vero” che riguarda la propria condizione contro la mistificazione di esso da parte del secondo, attraverso la simulazione “astuta” o “folle” di uno stato di felicità. La strofa centrale, da alcuni denominata “astronomica”, è una delle più ipotattiche e difficili dal punto di vista sintattico e al contempo una delle più affascinanti, che riconduce alla mente l’Infinito o il Canto notturno e fa riflettere su un’attitudine di Giacomo Leopardi di fronte a tutta l’immensità: la propensione all’infinito, “un anelito verso la bellezza creata, un aspirazione all’infinito.”[8] Il poeta siede e contempla il cielo stellato. La stanza pare espandersi e contrarsi all’unisono con il moto del pensiero poetante, che si volge all’ondeggiante “flutto indurato”, il quale chiama per analogia, con il distendersi dello sguardo, il mare lontano, che a sua volta contiene il riflesso delle stelle specchiate sulla sua superficie. Le stelle appaiono un punto agli occhi, un punto a confronto di esse sono la terra e il mare, un punto ancora le nostre stelle sono per le ancor più remote nebulose. Da qui il pensiero precipita giù fino all’infima “prole dell’uomo”. Il vivo interesse per le scienze e l’astronomia, che si può osservare nel Leopardi giovanissimo della Storia dell’Astronomia e che ha continuato a nutrire l’immaginazione del poeta nel corso degli anni, manifestandosi in molteplici opere, si risolve qui nella più alta contemplazione poetica. Il senso della distruttività della natura pervade la lunga similitudine che occupa interamente la strofa seguente. Il pomo cade perché è maturato, null’altro che il corso della natura lo fa cadere. Nell’andare obbligato, deterministico di questo corso può accadere che esso precipiti su un formicaio, distruggendolo come l’esplosione di lava ha distrutto in pochi istanti le città ormai scomparse. La figura del villanello, costretto a fuggire affannosamente dalla distruzione imminente della sua casa, che guarderà da lontano coprirsi del “flutto rovente”, riporta alla mente altre figure dei Canti, rappresentate con uguale tenerezza e pietà, come quella del vecchiarello del Canto notturno, altrettanto innocente e ugualmente in fuga dalla natura. Risorge poi dalla fantasia del poeta il paesaggio dell’estinta Pompei, reso lugubre dalle inquietanti e sfigurate rovine, tra cui corrono i flutti abbaglianti di “funerea lava”. Ancora una volta la “natura” ha l’ultima parola e chiude la penultima strofa: «Sta natura ognor verde, anzi procede / Per sì lungo cammino / Che sembra star. Caggiono i regni intanto, / Passan genti e linguaggi: ella nol vede: / E l’uom d’eternità s’arroga il vanto». Ritorna nell’ultima strofa, circolarmente, la ginestra, accompagnata dall’attributo “lenta” che fa da contrappunto all’ “odorata” della sua prima apparizione. Dopo aver offerto la sua mite consolazione, aroma che sfuma come il canto poetico, ora non può che immolarsi pacatamente piegando il capo alla forza della natura. Allo stesso modo il poeta, noncurante del nulla e della ormai prossima morte continua a dispensare al mondo i suoi canti solitari. La critica acutissima e limpida di Blanca María de las Nieves Muñiz Muñiz rende onore al carattere eroico ed energico che Leopardi mostrò tanto nella poesia quanto nella vita, all’incredibile capacità di superare con energia virile “dolori psicologici e torture morali”[9], in pagine critiche che sfiorano a loro volta i toni della poesia, nell’introduzione alla sua traduzione dei Canti, da cui riporto in seguito una breve e commovente citazione:
Vi è nella poesia di Leopardi un altro elemento di bellezza: l’energia. Debole di corpo, egli possedeva un’integrità indomita di pensiero, una virilità di carattere che imprimono una vigorosa unità alla sua opera artistica e al suo sistema filosofico e destano ammirazione anche nei meno disposti ad accompagnare il poeta nelle sue superbe negazioni. […] Affascina lo spettacolo di un uomo che, nello stesso modo dell’eroe di Orazio, vede fatto a pezzi il mondo delle sue illusioni e speranze, e si erge impavido tra le rovine.[10]
In questo senso e con questa profondità va inteso, a mio parere, il simbolo della ginestra.
[1] W. Binni, Il messaggio della “Ginestra” ai giovani del ventesimo secolo, in Le opere complete di Walter Binni, Firenze, Il Ponte Editore, 2014, p. 265.
[2] Cfr. A. Negri, Lenta Ginestra, Milano, Mimesis Edizioni, 2015, pp. 276-287.
[3] G. Leopardi, Dialogo della Natura e di un Islandese, Operette Morali, in Leopardi, tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone, Roma, Newton Compton, 2013, p. 535.
[4] Ibidem.
[5] W. Binni, Il messaggio della “Ginestra” ai giovani del ventesimo secolo, cit., p. 267.
[6] Ivi, p. 265.
[7] W. Binni, La “Ginestra” e l’ultimo Leopardi, in Le opere complete di Walter Binni, Firenze, Il Ponte Editore, 2014, p. 254.
[8] Tradotto da María de las Nieves Muñiz Muñiz, Cantos, Madrid, Cátedra, 1998, p.12.
[9] Ivi, p. 27.
[10] Ivi, p.12.
[11] W. Binni, Il messaggio della “Ginestra” ai giovani del ventesimo secolo, cit., p. 266.
[12] W. Binni, La “Ginestra” e l’ultimo Leopardi, cit., pag. 250.
LA GINESTRA, O IL FIORE DEL DESERTO

Del formidabil monte

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