
Io, il primo operaio ammazzato dalla polizia che mi ricordo, si chiamava Turi Novembre.
«Un giovinetto di 16 o 17 anni, ancora non identificato è la vittima della vile sparatoria di Via Etnea. È stato prima abbattuto a bastonate, poi un poliziotto gli ha squarciato il petto a colpi di pistola mirando freddamente», così scriveva «l’Unità» del 9 luglio 1960.
Non so perché a me, un bambino ancora, quella scena mi si conficcasse nella testa. C’erano state manifestazioni enormi in Sicilia contro il governo Tambroni, “per il lavoro e per il pane”, e la polizia aveva sparato.
«Di nuovo a Reggio Rmilia / di nuovo giù in Sicilia», la canzone la sapete, e la cantava anche magnificamente Milva, però, poi i nomi “di Sicilia” non li sa nessuno.
Ne caddero tre a Palermo, Francesco Vella e Andrea Cangitano, edili – una, Rosa Barbera, era una signora che stava chiudendo le imposte e fu colpita da un proiettile. Giuseppe Malleo morì sei mesi dopo per le ferite riportate. Ne cadde uno a Licata, Vincenzo Napoli.
E uno era Salvatore Novembre. Un nome triste. Un nome destinato.
Salvatore Novembre di anni ne aveva 24, era di Agira, un paese dell’interno, e se n’era venuto a Catania a lavorare come edile – che Catania era la “Milano del sud” e andava ingrandendosi e lavoro ce n’era, ma sottopagato, precario e da schiavo. Ad Agira aveva lasciato la sua sposa-bambina, magari l’avrebbe chiamata appena si sistemava un po’. Non ne ebbe il tempo.
A Piazza Stesicoro, al centro di Catania, si raccolse una folla numerosa, migliaia. Volarono sassi. Poi la polizia sparò. Salvatore Novembre cadde sotto la statua di Vincenzo Bellini, che è un po’ il nume tutelare della città, un filo sotto Sant’Agata: «spargi in terra quella pace / spargi in terra / spargi in terra / che regnar tu fai, tu fai nel ciel» – si canta nella “Norma”.
Ma Turi non cadde morto, era ferito grave. La polizia impedì che ci si avvinasse per trasportarlo in ospedale e nessuna Jeep fu usata per questo. Così, Salvatore Novembre morì dissanguato. Lentamente.
Poi fecero i processi, non alla polizia, ma ai manifestanti che avevano arrestato. A Catania c’erano stati 121 fermati, 44 arrestati e 70 denunciati a piede libero per i reati di adunata sediziosa, resistenza aggravata alla forza pubblica, oltraggio e lesioni aggravate. A Palermo 400 fermi.
Ne condannarono una trentina a Catania e altrettanti a Palermo. Centinaia di anni di carcere. Era andata sempre così – dai fasci siciliani – e sarebbe andata ancora così, perché qualche anno dopo spararono di nuovo, ad Avola: caddero Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia, braccianti.
Ma questi morti qua, forse li ricordate anche voi.
Questa Repubblica è fondata sul sangue del lavoro. È il sangue che ha fatto rosse le nostre bandiere.