Il 7 Novembre 1917, con la presa del Palazzo d’Inverno a San Pietroburgo e di tutti i centri di comando cittadino, si ha il passaggio di potere dal Governo provvisorio di Aleksandr Fëdorovič Kerenskij ai Soviet, i consigli degli operai, dei contadini e dei lavoratori.
Per questo anniversario proponiamo il racconto di John Reed, giornalista statunitense che, per una coincidenza di eventi, si trovava proprio in Russia in quei momenti concitati, seguendo da vicino tutto lo svolgersi della Rivoluzione, visitando sia il Governo provvisorio che i Soviet fino alla vittoria dei Bolscevichi e oltre, ossia nella guerra civile contro-rivoluzionaria scatenata dagli ambienti reazionari e dalle potenze straniere.
Parlando di Rivoluzione Russa l’attenzione cade sempre su San Pietroburgo, dove all’effettivo gli eventi politici e insurrezionali ne hanno scandito le tappe, ma una parte considerevole di questa, con una repressione a volte anche maggiore, è avvenuta a Mosca, dove lo sforzo per liberare la città dalle forze legate agli ambienti reazionari e zaristi fu enorme. In questo racconto estremamente toccante, tratto dall’opera “I dieci giorni che sconvolsero il mondo”, il giornalista narra del corteo funebre in onore degli oltre 500 rivoluzionari uccisi nell’insurrezione di Mosca, dove l’esercito regolare non risparmiava sparatorie sulla folla di operai e contadini. Di fronte a questa scena, John Reed comprese l’importanza dell’obiettivo finale di quel sacrificio, primo e unico al mondo:
tratto da “I dieci giorni che sconvolsero il mondo”, capitolo 10 “Mosca” – John Reed
Tardi, nella notte, percorremmo le vie deserte ed attraversando la porta d’Iberia, sboccammo sulla vasta Piazza Rossa, davanti al Kremlino. La cattedrale di San Basilio il Beato innalzava fantasticamente nella notte le spirali e le scaglie delle sue cupole dai riflessi splendenti. Nulla pareva danneggiato… Lungo la piazza si elevava la massa scura delle torri e delle mura del Kremlino. Sotto l’alta muraglia tremava un riflesso rosso di fuochi invisibili ed attraverso l’immensa piazza ci pervenivano suoni di voci e rumori di vanghe e di zappe. Attraversammo…

Una montagna di terra e di pietre si elevava ai piedi delle mura. Ci arrampicammo sulla cima e i nostri sguardi caddero allora su due enormi fosse, profonde da dieci a quindici piedi, e lunghe una cinquantina di metri, che centinaia di soldati ed operai erano occupati a scavare alla luce di grandi fuochi.
Un giovane studente ci disse in tedesco:
— È la Tomba Fraterna. Domani noi seppelliremo qui cinquecento proletari che sono morti per la rivoluzione.
Ci fece discendere nella fossa. Le zappe e le vanghe lavoravano con una fretta febbrile e la montagna di terra aumentava. Nessuno parlava. Sulle nostre teste miriadi di stelle bucavano la notte e l’antico Kremlino degli zar alzava la sua formidabile muraglia.
— In questo luogo sacro, — disse lo studente, — il più sacro di tutta la Russia, noi seppelliremo ciò che abbiamo di più sacro. Qui, dove dormono gli zar, riposerà il nostro zar, il popolo…
Portava il braccio al collo per una palla che aveva ricevuto durante la battaglia. Gli occhi fissi sulla ferita, proseguì:
— Voi ci disprezzate, voi stranieri, perché noi abbiamo tollerato una monarchia medioevale per tanto tempo. Ma abbiamo visto bene che lo zar non era il solo tiranno al mondo, che il capitalismo era peggio e che, in tutti i paesi del globo, il capitalismo era l’imperatore… La tattica della rivoluzione russa ha aperto la vera strada…
Mentre noi partivamo, i lavoratori, spossati e grondanti di sudore, malgrado il freddo, cominciavano ad uscire faticosamente dalle fosse. Un’altra squadra arrivava attraverso la piazza. Senza una parola, discese a sua volta e gli attrezzi ricominciarono a scavare… Cosi, tutta la notte, i volontari del popolo si dettero il cambio, senza sosta, e quando la fredda luce dell’alba cominciò a diffondersi sulla grande piazza bianca di neve, le fosse spalancate e nere della Tomba Fraterna erano finite.
Ci alzammo prima del sole e per le strade ancora scure, ci recammo sulla piazza Skobelev. Non si vedeva un’anima viva nell’immensa città, ma si percepiva un vago rumore di agitazione, ora lontano, ora più vicino, come il rumore del vento che si leva. Davanti al quartier generale del Soviet, nella pallida luce del mattino, era riunito un piccolo gruppo di uomini e di donne che portavano un fascio di vessilli rossi dalle lettere d’oro. Era il Comitato centrale rivoluzionario del Soviet di Mosca.
Si fece giorno. Il rumore debole aumentò, si gonfiò in una nota bassa continua e potente. La città si svegliava.
Discendemmo la Tverscaia, bandiere al vento. Le piccole cappelle, sulla nostra strada, erano chiuse e scure. Tra le altre quella della Vergine di Iberia che ogni nuovo zar andava a visitare prima della incoronazione; notte e giorno aperta e piena di gente, essa era sempre illuminata dai ceri dei fedeli, che facevano scintillare l’oro, l’argento e le pietre preziose delle immagini.
Era, si diceva, la prima volta, dopo Napoleone, che i ceri erano spenti. La Santa Chiesa Ortodossa aveva distolto lo sguardo da Mosca, il nido delle vipere sacrileghe che avevano bombardato il Kremlino. Oscure, silenziose e fredde erano le chiese, scomparsi i preti. Nessun pope per i funerali rossi, nessun sacramento per i morti. Non vi sarebbe stata alcuna preghiera sulla tomba dei bestemmiatori. Tikon, il metropolita di Mosca, avrebbe ben presto scomunicato i Soviet…
I negozi erano chiusi e le classi possidenti restavano nelle case, ma per altri motivi. Quel giorno era la giornata del popolo, e il rumore della sua venuta, era simile al boato della marea che sale…
Già, sotto la porta di Iberia, un fiume umano scorreva e l’immensa Piazza Rossa si copriva di migliaia di punti neri. All’altezza della cappella di Iberia, dove prima nessuno mancava di farsi il segno della croce, constatai che la folla non sembrava neppure notarla.
Aprendoci un passaggio verso le mura del Kremlino, attraverso la folla fitta, ci arrampicammo sui mucchi di terra. Qualcuno vi si trovava già. Tra di loro, Muranov, il soldato che era stato eletto comandante di Mosca, un uomo alto e barbuto, dal viso dolce e dall’aspetto semplice.
Torrenti di popolo trasportavano per tutte le strade, verso la Piazza Rossa, migliaia e migliaia di esseri, segnati dalla miseria e dalla fatica. Una banda militare arrivò suonando l’Internazionale, e spontaneamente il canto si estese nella folla, propagandosi come le onde sull’acqua, maestoso e solenne. Dalla muraglia del Kremlino pendevano fino al suolo gigantesche bandiere rosse, con grandi scritte bianche e dorate: «Ai primi Martiri della Rivoluzione sociale universale» e «Viva la fratellanza dei lavoratori del mondo».
Un vento freddo spazzava la piazza e sollevava le bandiere.
Dai quartieri più lontani giungevano ora gli operai delle officine con i loro morti. Li vedevamo passare sotto la porta, con gli stendardi rossi e le bare più scure, color del sangue. Le casse di legno, ruvide, non piallate, tinte di rosso, posavano sulle spalle di uomini laceri, sul cui viso scorrevano le lagrime. Dietro venivano le donne che singhiozzavano e gemevano, oppure marciavano rigide, pallide come morte. Alcuni feretri erano aperti e il coperchio veniva portato dietro. Altri erano ricoperti di tessuto ricamato d’oro e d’argento, oppure era stato inchiodato sulla cassa un berretto da soldato. Vi erano molte orribili corone di fiori artificiali.
Il corteo avanzava lentamente verso di noi attraverso la folla che si apriva e si chiudeva subito dopo. Sotto la porta sfilava ora un’onda interminabile di bandiere di tutte le gradazioni del rosso con scritte in lettere d’argento o di oro e con nodi di crespo all’asta; vi era anche qualche bandiera anarchica, nera con lettere bianche. La musica suonava la marcia funebre rivoluzionaria e nel coro immenso della enorme massa, a testa scoperta, si distinguevano le voci rauche e rotte dai singhiozzi dei portatori…
Mescolate agli operai delle officine, marciavano compagnie di soldati, con i loro feretri, poi venivano squadroni di cavalleria al passo di parata e batterie di artiglieria con i pezzi velati di rosso e di nero, per l’eternità, sembrava.
Sulle loro bandiere si leggeva: «Viva la III Internazionale!» oppure: «Noi vogliamo una pace onesta, generale, democratica!».
I portatori arrivarono infine presso la tomba e scalando con le bare i mucchi di terra discesero nelle fosse; vi erano tra di loro molte donne, di quelle donne del popolo, tarchiate e robuste. Dopo i morti venivano altre donne, donne giovani e affrante e vecchie donne rugose, che gettavano grida da animali feriti, che volevano seguire nella tomba i figli o i mariti e che si dibattevano tra mani caritatevoli, che le trattenevano. È il modo di amarsi dei poveri.
Tutta la giornata, arrivando dalla porta di Iberia, e lasciando la piazza della Nikolskaia, il corteo funebre sfilò, fiume di bandiere rosse, con scritte di speranza e di fraternità e profezie audaci, attraverso una folla di cinquantamila persone, sotto gli sguardi degli operai del mondo intero e di tutta la posterità…
Uno ad uno i cinquecento feretri furono adagiati nelle fosse. Cadde il crepuscolo e le bandiere sventolavano sempre al vento, la musica continuava a suonare la marcia funebre e la massa enorme ricantava i suoi canti. Le corone furono appese ai rami lunghi degli alberi, come strani fiori multicolori. Duecento uomini afferrarono le pale e si udì confondersi ai canti il rumore sordo della terra sulle bare…
Delle luci apparvero. Passavano le ultime bandiere e le ultime donne singhiozzanti, che gettavano indietro un ultimo sguardo di una intensità spaventosa. Lentamente, l’ondata proletaria si ritirò dalla vasta piazza.
Compresi di colpo che il religioso popolo russo non aveva più bisogno di preti che gli aprissero la strada al cielo. Esso cominciava ad edificare sulla terra un regno più splendido di quello dei cieli e glorioso era morire per quel regno.
John Reed
LA RIEVOCAZIONE STORICA DELLA PARATA DEL 7 NOVEMBRE 1941.
Il 7 Novembre si eseguiva sulla Piazza Rossa la famosa parata militare in onore della Rivoluzione.
Nel 1941 la Germania nazista, tramite l’Operazione Barbarossa, attacca con l’80% delle sue forze l’Unione Sovietica, conquistando tutti i territori occidentali del paese con una velocità impressionante e arrivando, agli inizi di Novembre, a soli 20 km da Mosca.
Nella drammatica situazione di distruzione, dove in media ogni giorno l’esercito nazista uccideva 20.000 persone in maggior parte civili, quando ormai la logica e la ragione dava per spacciati e per vinti i sovietici con il nemico alle porte; si decise di eseguire comunque la parata del 7 Novembre 1941, che fu cruciale per ridare fiducia, speranza e morale alla popolazione che resisteva a quell’attacco e alle truppe che ripartirono immediatamente per il fronte alla fine della celebrazione.
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Di quella fondamentale parata, cade quest’anno il 75° anniversario.
Per onorarla e non dimenticare i 27 milioni di morti sovietici durante la Seconda Guerra Mondiale, a Mosca è stata realizzata la rievocazione storica che potete visualizzare in questo video.
Colasanti Marcello
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