No… l’isteria da coronavirus non ha intaccato la mia stabilità mentale.
Vedendo da parte mia la condivisione di un articolo del quotidiano Avvenire, magari qualcuno l’ha pensato, ma non è così.
La condivisione nasce da una riflessione che spontaneamente è nata in questi giorni, confermata con le parole del Premier Giuseppe Conte sull’inasprimento delle misure rivolte a contenere il contagio da coronavirus. Leggendo poi questo articolo di Marco Olivetti per l’Avvenire, ho trovato conferma alla mia preoccupazione (mentre dissento totalmente sulla visione e giudizio che riserva al sistema politico cinese; naturalmente, ci troviamo su posizioni ideologiche assai distanti). (Aggiorno con altri due articoli in calce).
Attenzione, una premessa ben chiara: non si mettono in nessun modo in sterile critica le misure scelte per questo momento delicato, lo si potrà fare in altro momento in maniera più coscienziosa. Attualmente serve organizzazione e direzione, dato il momento di paura e panico.
Ma qui è il punto centrale: la paura e il panico.
Nei momenti in cui queste due tremende emozioni prevalgono, viene meno la capacità di elaborazione e lucidità di pensiero, accettando, o magari semplicemente non rendendoci conto, che alcuni meccanismi appartenenti alla norma, sono saltati. Possiamo anche reputarli motivati, ma è importante tenerli ben presenti e continuare, a rigor di elaborazione e lucidità, ad essere vigili. Sono questi i momenti in cui storicamente avvengono le peggiori azioni.
Quel che stiamo vivendo ora è la maggiore limitazione alle libertà fondamentali che sia avvenuta negli ultimi 75 anni. Dalla chiusura delle attività, alla forzata “reclusione” in casa pena l’arresto, militari in strada, posti di blocco ovunque.
Lo scenario è (quasi) da legge marziale.
Motivato o meno a livello sanitario (non è questo il punto), la questione sollevata è strutturale.
Con una motivazione socialmente accettata e veicolata da una paura dilagante, mediaticamente montata (questo lo possiamo affermare con certezza), un governo ha attuato delle pesantissime limitazioni, andando ben oltre i confini dei propri poteri e la normale procedura parlamentare e costituzionale.
Teniamo da parte per un istante il discorso sanitario, ma affrontiamolo dal lato politico e giuridico. La situazione non è per nulla normale…
E se pensiamo che questo sia ben motivato (e probabilmente lo è, non giudichiamo ora), lo scavalcare e il comprimere la Costituzione per uno stato di gravità; dov’è, a questo punto, la superiorità della democrazia occidentale, se poi questa agisce negli stessi modi delle famigerate “dittature” che tanto critichiamo?
Fare anche solamente un debole paragone con la situazione in Hubei e in Cina è ridicolo, per i numeri e per le dimensioni messe in atto, ma quando il governo cinese si è mosso in tal senso, trovando compatto il senso civico e il supporto della popolazione (di coercizioni, ce ne sono state ben poche, questo non viene mai rimarcato dai media nostrani) e il plauso dell’OMS per la più grande operazione medica della storia; abbiamo speso solo ed esclusivamente parole di critica ribadendo, come sempre, la nostra presunta superiorità politica per le decantate libertà civili, con servizi giornalistici carichi di propaganda occidentale.
Ed ora? Che la ricetta è sostanzialmente quella?
E per giunta… anche meno efficace per un senso civico lontano anni luce e un sistema, il nostro neoliberista, che non può e non potrà mai gestire la cosa pubblica (quando è in perdita) come la controparte socialista?
La riflessione non è da poco, e ne apre di complesse:
– cosa significa “sistema democratico”? Alla luce dei fatti e dei risultati, è più corretta l’interpretazione che ne danno gli altri, o la nostra?
– cosa è veramente per il nostro bene e cosa no?
– è veramente così semplice attuare politiche da “dictator” repubblicano romano?
– cosa siamo disposti ad accettare?
– quanto influisce la paura?
– perché nel 2009 con 500.000 morti per la febbre suina e 1.500.000 casi in Italia, non abbiamo attuato la stessa procedura, mentre ora sì, con un virus che conta 4.600 morti totali e 12.000 casi in Italia?
Critiche o condanne, come detto in apertura, troveranno tempo quando l’emergenza sarà placata. Che queste parole non siano motivo per non ottemperare a qualsiasi disposizione.
Vedremo… Come e quanto questa compressione del diritto sarà razionale e di buon senso come la Cina ha saputo dimostrato, oppure da noi, assumerà altro.
Nel frattempo, e ancor più dopo, razionalità e attenzione.
Perché ricordate, l’alimento perfetto per ogni dittatura, manifesta o meno, è e sarà sempre, la paura.
Marcello Colasanti
Così le norme contro il virus possono rievocare il «dictator»
di Marco Olivetti
In un momento di evidente emergenza, come quello causato dalla diffusione in Italia del nuovo coronavirus, interrogarsi sulla compatibilità con la Costituzione delle misure sinora adottate dal Governo potrebbe sembrare un lusso che non possiamo permetterci. Ma questo approccio al problema, che forse istintivamente è inevitabile, equivarrebbe a mettere la Costituzione in quarantena, muovendo dall’idea che essa vale per i tempi normali e non per quelli eccezionali. Un’idea, questa, assai risalente, che potrebbe trovare la propria radice ultima nella Dittatura cui i romani facevano ricorso in situazioni di pericolo per la Repubblica, introducendo in quel caso una figura giuridica – il dictator, appunto – che per sei mesi sostituiva i consoli.
Le Costituzioni scritte, dalla fine del Settecento a oggi, hanno ripreso in vario modo questa idea, individuando organi e procedure per la gestione delle situazioni di macro e di micro–emergenza: stati di guerra, stati di assedio, stati di emergenza di vario tipo. In effetti, in tali fasi della vita civile, la forza della Costituzione si attenua, ma nei tempi più recenti si tende sempre più a sottolineare che essa non viene meno, e opera invece in modo diverso rispetto alle situazioni ordinarie. Le conseguenze principali sono due: una, che attiene alla Costituzione dei diritti, consente la compressione dei diritti fondamentali (ma non, di norma, la loro completa soppressione); l’altra, che concerne la Costituzione dei poteri, individua organi e procedure appositi, diversi da quelli ordinari, per far fronte all’emergenza.
Il Governo italiano ha sinora fatto ricorso a due strumenti. Da un lato ha inquadrato la situazione di emergenza generata dal nuovo coronavirus come un evento igienico–sanitario idoneo a far scattare l’apparato della Protezione civile e ha dichiarato a tal fine lo stato di emergenza sanitaria. D’altro lato, quando il virus ha investito direttamente e drammaticamente alcune parti del territorio italiano, ha adottato un decreto legge (il n. 6 del 2020), che ha individuato una serie di interventi limitativi delle libertà e di altri diritti fondamentali e ne ha rimesso l’attuazione a decreti del Presidente del Consiglio dei ministri. In questo quadro, tre dpcm (sigla che, appunto, indica i decreti del Presidente del Consiglio) si sono susseguiti in pochi giorni, per far fronte all’emergenza.
Con il sistema attuale il Presidente del Consiglio viene di fatto abilitato a stabilire quali limitazioni dei diritti fondamentali possono essere adottate. Uno schema che appare problematico Solo a crisi terminata sarà possibile una valutazione sulla adeguatezza e sulla coerenza di queste misure, considerate nel merito
L’ultimo di essi, datato 9 marzo 2020, regola attualmente la materia richiamando ed estendendo all’intero territorio nazionale quanto stabilito il giorno precedente, 8 marzo, per la Lombardia e alcune province di Piemonte, Veneto, Emilia Romagna e Marche. Letti assieme al decreto legge 6 del 2020, questi decreti hanno messo in campo la più intensa limitazione dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione dal momento in cui questa è in vigore, cioè da 72 anni a questa parte: non è solo limitata la libertà di circolazione, ma anche quella di riunione, così come il diritto all’istruzione, il diritto al lavoro e la libertà di iniziativa economica, nonché, almeno in parte la libertà di manifestazione del pensiero, la libertà religiosa e la stessa libertà personale, pur con una serie di meccanismi di flessibilizzazione dei divieti e delle prescrizioni che in taluni casi li riducono a mere raccomandazioni.
Solo a bocce ferme, vale a dire a emergenza superata, sarà possibile una valutazione sulla adeguatezza e sulla coerenza di queste misure, considerate nel merito. Ed è bene dire fin d’ora che una attenta verifica tecnica dovrà essere compiuta, auspicabilmente da parte di una Commissione tecnica, che sottoponga un rapporto al Parlamento e all’opinione pubblica. Nel frattempo, ci si può chiedere se le procedure che il Governo ha deciso di seguire siano costituzionalmente corrette. L’Italia, infatti, a differenza della Cina, che ha adottato misure ancor più drastiche nella provincia dell’Hubei, è uno Stato costituzionale di diritto e non un regime totalitario, e anche quanto sta accadendo in questi giorni non può sfuggire al limite costituzionale, anche se è inevitabile che ogni snodo del sistema costituzionale sia messo in tensione in circostanze come quelle attuali, come del resto accade per la vita dei cittadini.
Due osservazioni si impongono. La prima è che le basi costituzionali del sistema di disciplina dell’emergenza regolato dalle norme sulla protezione civile sono fragili. Si tratta infatti di un sistema cresciuto gradualmente nella legislazione ordinaria e riordinato con una riforma dei primi giorni del 2018. Tale sistema, in particolare, è del tutto privo di una fase parlamentare nell’esame della dichiarazione dello stato di emergenza. Esso, inoltre, è stato applicato a una emergenza sanitaria quantomeno stiracchiandone un po’ la portata, dato che le sue norme sono concepite per emergenze di altro tipo (soprattutto calamità naturali). Esso, quindi, non individua i provvedimenti limitativi dei diritti fondamentali e anche per questo il Governo è intervenuto con il decreto legge n. 6 del 2020.
Quanto a tale decreto legge, esso autorizza limitazioni assai invasive ai diritti fondamentali, ma lo fa in maniera generica, sicché tutte le regole sono delegificate, in quanto il loro contenuto è rimesso a decreti del Presidente del Consiglio. Questi ultimi sono sottratti a qualsiasi controllo preventivo, dato che non sono emanati dal Presidente della Repubblica (come decreti legge e regolamenti) e non sono sottoposti a conversione in legge come i decreti legge e quindi non sono soggetti a esame parlamentare. Il Presidente del Consiglio diventa quindi una specie di dictator, abilitato a stabilire effettivamente quali limitazioni dei diritti fondamentali possono essere adottate. Questo schema appare costituzionalmente problematico e ci si può chiedere se le esigenze di efficacia che hanno spinto a disegnarlo non possano essere soddisfatte con soluzioni procedurali più compatibili con la struttura costituzionale italiana.
Il pizzicagnolo sì e il Parlamento no?
di Alessandro De Angelis
Già, qui ed ora, si pone un tema: come evitare che, oltre alle persone, il virus infetti anche le democrazie. Stato di eccezione, cultura del Capo, Aule chiuse, e comunicazione manipolatoria: l’emergenza come paradigma di un nuovo “esperimento sociale”
Non c’è da aspettare la fine, purtroppo non immediata, nell’illusione che tutto sarà come prima, anche se è rassicurante pensarlo: finita l’emergenza si tornerà alla normalità, in termini di politica, potere, come assetto ed esercizio, linguaggio, mentalità, forse spensieratezza. Al “come eravamo”. La pandemia sta già cambiando pelle alla politica. Ne ha silenziato il chiacchiericcio, poco male, ma non è vero che l’abbia sospesa. Anzi, come tutte le fasi emergenziali, di cambiamenti profondi ed estremi, di confronto con situazioni limite, questa è una fase estremamente politica.
E già, qui ed ora, si pone un tema: come evitare che, oltre alle persone, il virus infetti anche le democrazie, in modo irreversibile: il “come saremo”. Sospeso (per necessità) il voto per il referendum, sospeso (per necessità) il voto per le regionali, sospese, perché luoghi di contagio, piazze, socialità, agorà, spazi di vita pubblica, il cui bisogno si propaga con i canti suoi balconi: mai, nella storia della Repubblica, si è prodotto un uno stato emergenziale tale da sospendere così a lungo e in modo così radicale gli spazi di incontro pubblico nemmeno nei momenti più bui del terrorismo, nemmeno nei territori controllati dalla più cruenta delle mafie.
Sappiamo, ormai abbiamo capito tutto su come funziona il contagio, che i tempi saranno lunghi, e dunque che sarà lunga anche questa paralisi. Tra i suoi rischi c’è che l’incubazione di questo “nuovo ordine” di necessità porti a un deperimento della democrazia per come l’abbiamo conosciuta finora e che questo deperimento, senza scandalizzarsi tanto, sia considerato ineluttabile, nel corso naturale delle cose, di fronte a un’emergenza che lo giustifica. È, in fondo, quel che sta accadendo per quel che riguarda il Parlamento, che pure rappresenta in questo contesto uno snodo cruciale, perché è un punto di vita e di sovranità minima nello stato di eccezione. Di fatto, è chiuso fino al 25 marzo, come se fosse un negozio, un pub, un ristorante, ovvero un luogo di potenziale contagio da evitare. Non come un supermercato o una farmacia, un commissariato o un ospedale, ovvero un luogo essenziale per la collettività, da tenere aperto, sia pur con norme di sicurezza.
Non è una questione accademica, da politologi o politicisti. Sia chiaro: è fisiologico che un’emergenza estrema produce un quadro straordinario di decisioni. Ma una democrazia ha ragione di esistere nella misura in cui dimostra di avere strumenti decisionali, anche in una situazione di emergenza. Se una democrazia non ha, o non aggiorna, gli strumenti per affrontare una pandemia, il rischio è che, senza tanti clamori e nei fatti, si trasformi in qualcos’altro (qualcuno parla di “democratura”): un sistema formalmente democratico, ma sostanzialmente ispirato a forme autoritarie o comunque assai sbilanciate.
La sensazione è che si sta producendo in Italia, almeno come tendenza del momento, un “esperimento” politico e sociale non irrilevante: la democrazia come regime di un Capo, chiamato a gestire l’emergenza, in un clima in cui l’afflato nazionale troppo spesso giustifica il “basta polemiche” da parte dei gendarmi dell’ordine costituito, per cui diventa dannoso ciò che in una democrazia è sempre fisiologico, compresa la critica a come l’emergenza viene gestita, perché fa parte del racconto della crisi. È un caso di scuola: nei momenti di emergenza ciascun sistema declina le sue inclinazioni profonde e le sue tendenze di fondo. Macron, in cinque giorni è passato dal “non ci impediranno di stare all’aperto” allo “stiamo in guerra”, rivelando una tendenza bonapartista presente nel sistema francese.
In Italia, un lungo e radicato esprit antipolitico si manifesta nell’indifferenza verso un Parlamento chiuso per virus. Ma anche nel conformismo diffuso verso l’operazione politica posta in essere da palazzo Chigi in questo passaggio: chi critica il governo è un sabotatore della patria di fronte al numero crescente dei morti, mentre è legittima la propaganda che alimenta la “cultura del Capo” sia essa sotto forma di una foto del premier che guarda l’orizzonte come Kennedy o al lavoro nell’ora più buia come Churchill, sia essa sotto forma di discorsi sempre attenti a non urtare il consenso: gli italiani lodati anche quando si comportano male, lasciando ai virologi l’onere di bacchettarli, le regole mai imposte con fermezza, ma sempre come consiglio. Paradigmatico quel che è accaduto sui parchi: bastava chiuderli o dire che non serviva, e invece al governo non si sono assunti il dovere di decidere e di ordinare, limitandosi a consigliare, invitare, indirizzare e lavorare sulla persuasione, sul senso di colpa e sul controllo del singolo. Il parco resta aperto, ma tu non ci devi andare solo perché te lo dico io in diretta Facebook e vediamo se ti convinco. Poi lo fanno i sindaci e magari i presidenti di regione e la decisione non sarà impugnata.
È un esperimento sociale nuovo, fatto di una comunicazione molto manipolatoria, che si nutre di persuasione demagogica e di senso di colpa, non della certezza delle regole e del primato della decisione, a rischio di impopolarità: una logica da Grande Fratello, nel senso di Casalino più che di Orwell, secondo cui la rappresentazione di un copione diventa sostitutiva della realtà. A tavolino, come la costruzione di una leadership in questo gioco di specchi, che si alimenta di spifferi prima ancora che di provvedimenti, ma non di trasparenza. Alle 19 di oggi il decreto “Cura Italia” – sia chiaro: giusto e sacrosanto – non è ancora stato pubblicato in Gazzetta. Non c’è ancora cioè un testo definitivo su un provvedimento presentato all’opinione pubblica come pronto. E ancora non si capisce, in questo clima in cui ogni richiesta sarebbe presentata come sabotaggio, se e in che forma questa manovra si potrà discutere in Parlamento: qualcuno potrà, ad esempio, presentare un emendamento per i senzatetto che una casa non ce l’hanno o per chiedere più fondi sulle partite Iva?
Finora l’emergenza, drammatica, ha portato a varare provvedimenti senza precedenti con modalità senza precedenti, attraverso cioè “decreti della presidenza del consiglio”, atti per loro natura sottratti a qualsiasi controllo preventivo, dato che non sono emanati dal Presidente della Repubblica (come decreti legge e regolamenti) e non sono sottoposti a conversione in legge come i decreti legge e quindi non sono soggetti a esame parlamentare. Forse non si poteva fare altrimenti. Adesso si pone una questione, innanzitutto ai presidenti delle Camere: è possibile andare avanti così anche sulla politica economica e su tutti i provvedimenti che nei prossimi mesi andranno adottati o si impone una riflessione sul fatto che questo “presidenzialismo emergenziale” manda in quarantena la democrazia? Sono i quesiti che ha posto Sabino Cassese oggi sul Foglio: “Prima domanda: si può chiedere ai gestori di servizi essenziali di continuare la loro attività e non chiederlo al Parlamento? Secondo: è preferibile avere un parlamento zoppo o nessun Parlamento?”. Il riferimento è alla discussione sul voto online che cozza con la Costituzione creando, anche in questo caso, un precedente perché Costituzione impone il dibattito assembleare, ma l’assemblea espone al rischio di contagio. In Spagna il 24 saranno convertiti i decreti pendenti attraverso il voto online. In Italia la paura che poi non si possa tornare più come prima sta paralizzando l’architrave della democrazia. E già questo elemento certifica che già adesso nulla è più come prima. Insomma: si può gestire l’emergenza con la democrazia, sia pur a distanza di sicurezza oppure è già passato il concetto che è un impiccio?
Prove tecniche di dittatura
di Francesco Carraro
Facciamo una premessa che sennò mi va in ansia il cittadino-responsabile-e-disciplinato che, grazie a Dio, alberga in quasi tutti noi: le misure a cui stiamo ricorrendo sono giuste e sacrosante perché c’è un’emergenza sanitaria nazionale; e prima vengono la vita e la salute e poi tutto il testo. Va bene? Okay, ora cominciamo a ragionarci su. E ragionarci su vuol dire chiedersi, per esempio, come potremmo definire questo stato di cose se non ci fosse il Covid-19. Voglio dire: le strade deserte, la spesa contingentata, l’ora d’aria giornaliera, le pattuglie in divisa agli incroci, l’autogiustificazione per guidare da casa tua a quella di tua nonna, persino la patente per camminare, se sarà necessario.
La patente per camminare? Sì, o il foglio rosa, se preferite; insomma, un documento attestante il privilegio giustificante la vostra deambulazione, in barba all’articolo 16 della Costituzione. Se vi stanno già venendo i fumi o i nervi, tornate alla premessa. Ho già detto che tutte le misure di cui sopra sono condivisibili e accettabili, per via del Corona virus. Adesso tornate alla domanda: come potremmo definire questo stato di cose senza il Covid-19? Esatto! C’è una sola risposta plausibile: dittatura. L’esperienza drammatica, e per certi versi surreale, in corso ha pochissimi aspetti positivi, forse nessuno. Ma uno, se me lo consentite, c’è.
Ci sta mostrando, anzi ci sta facendo vivere sulla nostra pelle, in presa diretta, giorno per giorno, in cosa consista un regime. Ripeto: parlo da un punto di vista oggettivo, al netto del morbo. Tutte le misure eccezionali da cui siamo (volontariamente) “costretti”, e a cui ci siamo (spontaneamente) consegnati, sono la “normalità” in una dittatura, in un regime. Vi dirò di più: quella in fase di sperimentazione è (sul piano oggettivo e astraendo dalle circostanze) una dittatura sui generis, molto meno simile a quelle lugubri e totalitarie del Novecento e molto più affine a quella immaginata da George Orwell nel romanzo “1984” o da Ray Bradbury in “Fahrenheit 451”.
Anche noi, come Winston Smith (il protagonista di “1984”) o come Guy Montag (l’eroe “Fahrenheit 451”), viviamo in case dove uno schermo gigante, spesso coadiuvato nell’opera da molti altri schermi minori, spara quotidianamente messaggi pedagogici da un lato (“Andrà tutto bene!”) e invasivi dall’altro (“Restate a casa!”). E, come in 1984, il suddetto monitor ha la funzione di distrarci dalla “oggettiva” condizione di prigionieri in cui ci troviamo.
Ovviamente, per rassicurarci, è sufficiente pensare: ma noi stiamo vivendo uno stato di eccezione, poi faremo una grande festa e torneremo alla normalità. Proprio come accadrebbe a chi si ridestasse all’improvviso da un brutto incubo, prima di rimettersi a dormire: tranquillo – si direbbe – è stato solo un sogno. Ecco, è precisamente questo il punto. Non diamolo per scontato. Ci sono piani inclinati che, una volta imboccati, si inclinano sempre di più. Ci sono azioni, pensieri, abitudini da cui, una volta appresi, si fa fatica a staccarsi.
Non sottovalutate l’insidiosità dello slogan da cui siamo tutti letteralmente bombardati in questi giorni bastardi: “Bisogna rispettare le regole”. E neanche la pericolosità di quell’altro: “Dobbiamo cambiare le nostre abitudini”. Se anche paiono temporaneamente, ed eccezionalmente, validi, queste nenie ipnotiche sono normalmente, e ordinariamente, l’anticamera di ogni dittatura. Se ce lo dimentichiamo, finiremo per accettare (se non a invocare) le nuove “regole” e le nuove “abitudini” anti Covid, anche in assenza di Covid.