Articoli del 2020 · Cronaca · Cultura · Sociologia

No, non va bene “tutto” per portare gente al museo. Quel monito dagli anni ’80 che ci sta sfuggendo sul fenomeno degli influencer.

politically
vignetta da Politically Retrò.

Ogni notizia necessita del peso che merita.

Alla visita di Chiara Ferragni agli Uffizi non dedicheremmo nemmeno due righe se non si fosse infiammato un dibattito piuttosto acceso, violento in alcuni casi.
Poche righe per puntualizzare alcune posizioni, più delle risposte alle banalizzazioni che hanno guidato la discussione, perdendo di vista un’analisi del fenomeno dell’influencer, che va oltre la stessa Ferragni.

In molti hanno difeso la scelta della Galleria degli Uffizi di “pubblicizzarsi” tramite un post che paragona Chiara Ferragni ad una moderna Venere botticelliana; la motivazione è la stessa che vale per ogni questione controversa: “se si attirano giovani, meglio così che nulla”.

Molti di questi difensori hanno inserito all’interno della discussione discorsi estranei alla questione, come l‘utilizzo dei social per promuovere cultura, il femminismo, il ruolo della donna di successo e manager, in risposta a chi, invece, era critico sulla questione.

Che si utilizzino i social in ogni campo, anche culturale, per raggiungere un maggior pubblico non solo è positivo, oggigiorno è divenuto necessario per rimanere al passo con la velocità dell’informazione e della divulgazione; non è il mezzo che si critica, ma il personaggio che fa da gancio al mezzo.
Che Chiara Ferragni sia donna, non è minimamente alla base del discorso, perché le critiche varrebbero per ogni genere di influencer.
Insomma, questioni che poco hanno a che vedere con la critica originaria e, come al solito, portano la narrazione su un piano di confusione allontanandoci dal punto, cioè all’utilizzo dell’influencer, del personaggio, non altro.

Rispondendo in maniere molto sintetica al nòcciolo: non va bene “tutto” per portare gente al museo.

Il problema enorme dei tempi attuali è che qualsiasi argomentazione, cultura in primis, è stata schiacciata volutamente al ribasso (motivi politici dagli anni 80 che non è possibile discutere in una riflessione di poche righe, ma approfondibile in parte qui).

Nel momento in cui anche chi dovrebbe mantenere un argine a tale appiattimento, come uno dei musei più importanti al mondo, si piega all’utilizzo dell’influencer, si invia un messaggio di legittimazione molto più pericoloso di quel che possiamo immaginare, accompagnato (tra l’altro) con un commento al post piuttosto esagerato e opinabile (la Venere botticelliana).

ferragni-uffizi

Il moderno “influencer“, di cui Chiara Ferragni ne è senza dubbio l’indiscusso punto di riferimento, è l’esempio massimo di un certo tipo di non-cultura, di un modello che esalta il vuoto totale dei contenuti in favore della sola apparenza dell’ostentazione, di quell’ottica di “realizzazione personale” che passa solo ed esclusivamente dalla monetizzazione nel minor tempo e col minor sforzo possibile, con tutte le conseguenze nefaste che porta in campo lavorativo, sociale e pedagogico l’avere questo tipo di “attività” come modello a cui aspirare per sentirsi realizzati.

Paradigma d’omologazione atroce per milioni di adolescenti, esempio massimo dell’appiattimento di cui sopra, a cui non solo non stiamo cercando un argine, ma continuiamo imperterriti a spalancargli le porte…

Tutto nel nostro sistema è in funzione dell’utile e del profitto: determinati soggetti trovano continua legittimazione e richiesta in ogni settore in funzione pubblicitaria, grazie all’ampia visibilità di cui dispongono tramite il mezzo social, accrescendo a loro volta la loro stessa visibilità e accettazione, imponendosi in nuovi settori.

Trovare sponda anche nel settore della cultura, in uno dei suoi luoghi per eccellenza, è un messaggio non solo errato che si invia all’utente finale, ma pericolosamente incoerente.

Non è elitarismo, snobismo; ogni strumento utile alla fruizione di cultura deve essere utilizzato. Ma ribadiamo, che sia utile
Che un ragazzino/a entri agli Uffizi perché l’ha visto fare all’influencer, non ha nulla di positivo se poi tale visita si ridurrà al selfie da postare su Instagram; in questo caso abbiamo creato costume, non cultura…

Più che utile questo è controproducente; determinate dinamiche, una volta innescate, sono assai difficili da ridefinire.

Non smarchiamoci con un “meglio così che niente“, perché sappiamo che in fondo, non è così… L’approccio non può essere questo, basato su un rituale di costume o sacrificato al contatore dei like.

Peggio ancora il sostenere, in un attacco di progressismo (che non genera progresso, ma sviluppo, differenza abissale) il sono i tempi, lamentandoci magari di tanti altri problemi che sono parte integrante di queste azioni e legittimazioni.

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Quel che stiamo vedendo e vivendo non è lontanissimo da un fenomeno “di costume” che caratterizzò gli anni ’80, quello dei Paninari. I punti in comune sono molti, in particolare la totale mancanza di profondità, contenuto e personalità sacrificati in nome di un’apparenza totalizzante legata alle “etichette” e al consumo. Ma il punto di contatto più vicino ad oggi e al fenomeno dell’influencer social, è proprio l’incomprensione e l’inadeguatezza di chi ne è fuori dai meccanismi.
Molti intellettuali in quegli anni misero in guardia la società sui nuovi fenomeni di costume, special modo il mondo paninaro, che scendeva più in profondo della semplice apparenza di un giubbotto da sfoggiare in Piazza San Babila; furono sempre tacciati di ottusità ed eccessiva reticenza “al cambiamento“. Quel mondo sappiamo a cosa ha fatto da prologo, anche solo come sintomo: spoliticizzazione, individualismo, materialismo e consumismo sfrenato (il discorso è molto ampio e ne consigliamo l’approfondimento, si rimane stupiti dai paralleli con il mondo attuale).

Per il video integrale (clicca).

Chi sta difendendo il mondo rappresentato da Chiara Ferragni ha sollevato anche la tematica del femminismo (liberale, aggiungiamo per rigor di cronaca), in un cortocircuito a dir poco kafkiano.
Nell’incastro in cui cadono tutti i movimenti “a difesa di” (liberali, ribadiamo anche qui), si difende e/o esalta il sistema che crea il problema che si combatte.
Ci si accanisce contro un effetto, lasciando campo libero alla causa.
In ottica proprio femminile, come si può continuamente lanciare slogan e campagne rivolte alle donne (soprattutto giovani) sull’accettazione di se stesse, quando poi si difende con veemenza un mondo, quello delle influencer, che pone come modello unico e “vincente” l’ostentazione del vestito griffato e di un certo tipo di corpo femminile?

Toccato anche il tasto riguardante il lato economico, della “manager di successo”. Qui il campo si allarga e diviene prettamente politico; servirebbe un articolo solo su questo.
Similmente al discorso precedente, siamo sicuri che sia la strada giusta l’esaltare uno dei prodotti più spinti del liberismo economico, rappresentante massimo di quella società dei consumi che si fonda sull’apparire, sull’omologazione, sul sogno della ricchezza “facile e a portata di click” laddove per ognuno che riesce (giocando una partita non alla pari) milioni falliscono, lamentandoci poi dei problemi sociali di diretta derivazione?

Particolarmente sulla scelta degli Uffizi, abbiamo letto anche che questo aiuta a “staccare qualche biglietto in più”. Certo, un museo vive anche di entrate economiche, ma non è proprio questa visione che critichiamo da anni e cerchiamo di sovvertire, cioè, che un luogo che produce valore culturale (o anche sociale) non dobbiamo equipararlo e valutarlo alla stregua di un’attività commerciale, data la natura differente del valore che produce?

La problematica è molto seria. Ormai, forse, anche irrimediabile.
Citando qualcuno che su tematiche molto simili ci ha sempre visto lungo, commentando la società dei consumi:
“Non c’è più niente da fare”.

Ogni tempo ha avuto i propri fenomeni: a volte arginati, a volte creati e inglobati.
Se proprio non possiamo porvi rimedio, almeno evitiamo di normalizzarli in quei settori che rappresentano un antidoto contro un certo tipo di mercato e di fruizione, probabilmente l’unico che potrà rappresentare un argine efficace e duraturo.
O semplicemente, mantenere un briciolo di coerenza ed evitare di mandare continuamente messaggi contrastanti, soprattutto ai giovani.
Non commettiamo l’errore degli anni ’80, che i suoi frutti (avvelenati) sono prepotentemente tra noi…

Il capitalismo è quando tagli i fondi ai musei, alla scuola e alla cultura e poi chiami la Ferragni a fare pubblicità alla Venere di Botticelli.

da Realismo Memetico

PS: per chi pensa che Chiara Ferragni sia vittima nello scontro che si è generato, sappia che tali questioni sono alimento vitale (e monetizzante) per un influencer.
Ribadiamo, di nuovo, che il messaggio è sul fenomeno dell’influencer social, non in maniera particolare alla sua persona.

 

LINK:
Quanto è ancora rilevante un passaggio TV? Purtroppo, molto…

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Un pensiero riguardo “No, non va bene “tutto” per portare gente al museo. Quel monito dagli anni ’80 che ci sta sfuggendo sul fenomeno degli influencer.

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