Articoli del 2021 · Cinema · Sociologia

Don’t look up: alla fine, ognuno ci ha visto quel che ha voluto.

Tranquilli, non è l’ennesima recensione di Don’t look up, se ne (s)parla già abbastanza. Per una approfondita rimandiamo alla migliore in circolazione, quella di Contropiano.
Qualche riga di contributo va proprio sul chiacchiericcio da social che ha scatenato il film di Netflix.
Per correttezza, anche senza una descrizione vera e propria degli eventi, gli spoiler ci sono, quindi passi oltre chi non l’ha visto.

Nella smania di dover dire necessariamente “la propria“, mi ha incuriosito il leggere tra i vari commenti/recensioni come ognuno abbia proiettato una propria visione, limitata spesso su un singolo aspetto (sovente poco aderente), anche su un prodotto così netto e delineato, che per una volta lascia veramente poco spazio all’interpretazione personale.

Tra i migliaia di post e commenti, si è letto di film sulle “oligarchie” (concetto sempre molto astratto e che fa da parola-prezzemolo), la “politica ladrona” (qualche refuso grillino), il potere del “maschio bianco” (sfuggendo il genere della Presidente, la presentatrice, la direttrice del Kennedy Space Center), la “mancata affinità sentimentale tra i protagonisti” (?!?), la “non riconoscenza del professore verso i dottorandi” (fin dall’inizio il personaggio recitato da Di Caprio rende ogni onore alla sua dottoranda), l’ambientalismo, fino alle testate giornalistiche (la Stampa e Sole 24 Ore in pole position) che buttano tutto il discorso sulla “gestione dell’emergenza” da parte dell’uomo, eludendo volutamente il fulcro centrale del film.
Tutti spunti letti, più volte, tra commenti da social e recensioni di settore.
Riassumendo, ognuno ha visto quel che ha voluto.

Molto chiaramente e in maniera netta e cruda, il film mostra un quadro satirico e drammatico sul sistema occidentale in toto, allo stadio più avanzato del neoliberismo in completa decadenza (soprattutto valoriale), rapportato alla situazione che più di tutte ne mostra inefficienza, fallacia e mortalità, quella dell’emergenza e della crisi. In pratica, esattamente il periodo storico che stiamo vivendo, politicamente ed economicamente.

Due aspetti del film hanno catturato maggiormente l’attenzione, i parallelismi più chiari e palesi: l’emergenza scatenata dalla pandemia di Covid-19; il governo degli Stati Uniti, una fotocopia al femminile dell’ultima amministrazione repubblicana (e la democratica attuale non è certo da meno) con una Maryl Streep/Trump e suo figlio capo di gabinetto/Ivanka. Soffermarsi su questi due aspetti, i più evidenti, risulta una limitazione.
Sul secondo, possiamo subito sottolineare un primo errore di valutazione. Molte recensioni hanno marcato in maniera significativa il binomio Streep/Trump come critica aperta ai vertici d’America, un “mostro” tutto americano. Niente di più errato: quel “prodotto” è intrinseco alla politica delle democrazie liberali, cambiando leggermente l’appariscenza in base alla territorialità. In Italia non serve nemmeno molta fantasia, basta aprire le pagine social di Santanché e Meloni.


La sceneggiatura di Adam McKay (nonché regia) farcisce il film con decine di elementi che hanno di certo aiutato a diversificare i giudizi sul film, ma il contorno non intacca in alcun modo il punto centrale: una rappresentazione dei rapporti di forza nel sistema occidentale. Rapporti che possiamo riassumere con quello che scorre tra la Presidente americana, sulla carta la persona più potente del mondo, e l’uomo che rappresenta il potere economico, Peter Isherwell (una sorta di Musk/Bezos/Jobs in uno) l’imprenditore stramiliardario di turno che si presenta al mondo come genio e benefattore, in realtà la vera “mano invisibile” che guida le decisioni governative, in quanto primo finanziatore della campagna elettorale. Rapporto riassunto perfettamente nella scena in cui l’imprenditore interpella la Presidente ma è stizzito dalla risposta poco celere, con tanto di “scusami tanto” e coda fra le gambe di lei: il totale asservimento della politica all’economia, soprattutto alle più alte sfere (il film è pieno di queste piccole frecciate all’apparenza secondarie).
Va da sé che in un sistema del genere, quello capitalista, la distruzione della Terra diventa un mero accordo d’interessi tra privati, dove anche il destino del pianeta intero e della vita è secondario al profitto.

Tutti gli elementi a contorno sono sfumature, effetti collaterali (spesso voluti) del sistema messo sotto lente, che ci portano sempre allo stesso cardine, alla stessa critica. Nell’elencarli quasi ci si perde, limitando al minimo:
l’Informazione ormai inesistente se non quella in funzione del potere, persa in una comunicazione che è solo spettacolo, frivolezze e trash;
– la “Scienza” con la S maiuscola, rappresentata dai premi Nobel schierati per l’imprenditore Isherwell, parte integrante del sistema e che segue la linea dettata dal capitale, relegando il lume della ragione ai bistrattati professori e scienziati minori delle “statali” (come sottolineato con disprezzo dal Capo di gabinetto);
– la predazione neoliberista infiocchetta le sue nefandezze con uno strato superficiale di messaggi umanitari, come la lotta alla fame nel mondo o nuovi posti di lavoro, mentre cela il tentativo di ottenere trilioni di dollari a fronte della distruzione del pianeta;
– quando ormai l’evidenza è sotto (in questo caso sopra) gli occhi di tutti, respingerla con l’ostinata asserzione di bugie e la creazione di una meta-verità, liquidando ogni logica ad un “complotto” nebuloso e dagli attori nascosti, in pieno stile fascista;
– la proprietà privata oltre ogni valore, sia umano che spirituale, rappresentata in maniera goliardica dalla “preghiera per le cose“;
– questa non piacerà a molti/e, ma va sottolineata: l’inutilità dei discorsi come “serve un Presidente donna”. Quel che conta e fa la differenza sono i rapporti di potere, non il genere, ancor di più in un sistema liberista;
– non può mancare il trash che permea ogni cosa, con l’emblematica e ridicola canzone “pro-scienza” (anche questa, non vi ricorda nulla a breve termine?) interpretata da Ariana Grande in un inutile “concertone” stile Live Aid;
identificare il “mondo” con il solo occidente. La partita per la salvezza e non-salvezza del pianeta è tutta in mano agli Stati Uniti, sia come governo che come capitale privato. Una visione irrealistica nella triste eventualità, che non può essere percepita come una “svista”, ma una precisa scelta narrativa. Non a caso il tentativo finale di Russia, Cina ed India di salvare il mondo lascia il dubbio di un sabotaggio, come quello iniziale firmato dall’Elon Musk di turno.

Volendo spendere due righe sul film stesso, la commedia amara convince e prosegue per le sue due ore senza intoppi narrativi, nonostante i tanti elementi che la sovrappongono. C’è da aggiungere che, con un cast (e budget) del genere, anche la più zoppicante delle produzioni ne uscirebbe godibile (55 milioni di dollari solo per Di Caprio e Lawrence).

Insomma, Don’t Look Up riassume e focalizza i peggiori lati del nostro tempo e sistema, andando dritto al punto del problema, il liberismo economico incontrollato, rappresentando la sua autodistruzione nel fluttuante Toro di Wall Street nello spazio, nella sequenza finale dell’esplosione.
Concordiamo, ma senza dimenticare e tenendo bene in mente che lo stesso “mostro” appena criticato è sempre in agguato, onnipresente e imperante: sotto il vello da pecora di Netflix c’è il rabbioso lupo appena descritto dal film.

È tutto inutile, come la criptovaluta.
Persona urlante nell’ultimo giorno del pianeta.

È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo.
(Slavoj Žižek o Fredric Jameson, non s’è mai capito chi l’ha detta per primo)

PS: se vogliamo “darci sotto” con il cinema americano anticapitalista, fatto in anni in cui il rischio era la galera o l’oblio lavorativo, rimandiamo sempre e comunque a Spartacus (sì… avete capito bene), soprattutto per la sua travagliata produzione, e il punto di riferimento indiscusso del genere, Essi Vivono di John Carpenter, film sul capitalismo “alieno” che tutto addormenta e tutto inganna per continuare a vivere.

– Ho lasciato moglie e figli a Detroit, non li vedo da sei mesi. Le acciaierie incominciarono i licenziamenti, ma fallirono lo stesso. Accettammo paghe ridicole per rimetterli in sesto e sai in che modo ci ringraziarono? Con un calcio nel culo! Il principio informatore: quello che maneggia l’oro detta legge. Chiudono un sacco di fabbriche e noi li vediamo scorrazzare con le loro limousine di merda.
– Lo sai, dovresti avere un po’ più di pazienza…
– E invece ne ho le palle piene! Loro decidono come devi vivere. Ti mettono in linea di partenza e il nome del gioco è “corri per il tuo padrone”. Noi siamo tutti morti di fame, ma ci azzanniamo l’uno con l’altro. (…)
– Perché vogliono tutto questo, perché sono quì?
– Semplice, il loro sporco gioco, sono liberi imprenditori.


Sul muro: Essi vivono, Noi dormiamo.
dialoghi tratti dal film “Essi vivono” di John Carpenter, 1988.

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