Il 10 Febbraio è il “Giorno della Memoria”, istituita nel 2004 per «la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale».
L’attenzione è soprattutto rivolta alle cosiddette “foibe”, gli inghiottitoi carsici dove, secondo i sostenitori della giornata, sarebbero stati gettati migliaia di italiani dalle truppe partigiane jugoslave, divenendo sinonimo stesso della commemorazione e mantra di contrapposizione politica.
Rispettando il dramma degli esuli istriani, che pagarono con la loro terra (non tutta italiana, ma da sempre popolata anche da croati e sloveni) gli errori politici e bellici dei governanti di allora; questa commemorazione per come viene celebrata, per la narrazione e per quello che riabilita, è uno dei casi più gravi di creazione politica e mediatica della storia, basata sull’inconsistenza storico-documentaria, unendo fatti ed episodi separati in un unico evento.
Nel 2004, anno dell’istituzione, siamo in pieno secondo Governo Berlusconi, dove troviamo tra le forze a sostegno partiti d’ispirazione fascista. Con l’introduzione di tale giornata, l’intento è quello di occultare le responsabilità italiane e fasciste prima dei fatti ricordati, l’unire in un contenitore unico vittime reali e centinaia di criminali di guerra che militarono nella Repubblica Sociale di Salò, ma soprattutto, il creare una condizione di equiparazione tra diverse ideologie, mettendole sullo stesso piano storico e valoriale, per far si che di fronte all’evidenza storica d’incontestabili orrori ed errori di parte fascista, si possano sminuirli con la contro-risposta di un altrettanto orrore. Sentiremo proprio da questi anni in poi la tanto utilizzata risposta “e le foibe?”.
Il progetto, di lunga data, è lo smontare e criminalizzare l’importanza storica della resistenza partigiana, base fondante dei valori costituzionali, in un susseguirsi di eventi che mirano proprio allo sgretolamento di quei valori, per traghettarli verso una visione liberista e nazionalista; per questo, è fondamentale una riabilitazione del periodo fascista e la riscrittura di una porzione di storia.
Occultando le efferatezze contro i popoli slavi del periodo fascista nei territori istriani e dalmati, che possiamo riassumere con queste parole:
“Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani” (Benito Mussolini, 1920);
occultando la ferocia con cui l’esercito italiano trattò i civili jugoslavi dopo l’invasione dell’Asse, dagli eccidi iniziati ben prima di quelli tedeschi, alla distruzione di interi paesi, dall’internamento di 100.000 jugoslavi in campi di concentramento simili ai modelli tedeschi, l’uccisione di 900.000 civili jugoslavi, che possiamo anche qui facilmente riassumere con: “So che siete dei buoni padri di famiglia; questo va bene a casa, ma non qui, qui non sarete mai abbastanza ladri, assassini, stupratori”. (Generale fascista Mario Roatta ai soldati italiani in Montenegro. Il 18 marzo 1942 venne nominato comandante della 2° Armata in Croazia dove ordinò contro la guerra partigiana di “…applicare le sue disposizioni senza false pietà”, dando così inizio ad una vera e propria azione di terrore contro i civili che davano supporto logistico alle bande partigiane. Vennero devastati numerosi villaggi);
omissioni queste, che servono per non inquadrare le azioni successive delle forze jugoslave, che corrisposero spesso ad atti di vendetta personale contro vecchi aguzzini, e non di pianificata azione partigiana.
Non ultimo, omissioni per mantenere vivo quel concetto di “italiani brava gente” nato nel dopoguerra democristiano.
E così, creando un mito di efferatezza con la visione emotivamente forte delle “foibe”, fenomeno in realtà ascrivibile all’ordine delle decine-centinaia di casi, come base documentaria e plurali studi storici dimostrano, con relativo processo a carico dei responsabili; quest’ultime vengono utilizzate in maniera propagandistica per definire in generale tutti i morti italiani del periodo, anche quelli caduti semplicemente in battaglia, in campi di prigionia o in altri contesti, inserendo indistintamente donne e bambini, con numeri totalmente inventati negli articoli e nelle propagande d’estrema destra, che vanno dai 10.000 ai 30.000 (a livello documentario, si parla dai meno di 5.000 al massimo di 10.000, sempre di morti, non “infoibati”).
E in chiave di riabilitazione della storia fascista, si iniziò, sempre dal 2004, a dare medaglie al valore (almeno 300) ad appartenenti della Repubblica di Salò, personaggi notoriamente criminali di guerra, con alle spalle torture, assassini, eccidi, come Privileggi Iginio, Stefanutti Romeo, Bergognini Giacomo, ecc., cosa impossibile fino a pochi anni prima.
Addirittura, data l’inconsistenza delle tesi e dell’inesistenza di documenti che avvalorino le foibe, negli articoli, nei manifesti ed addirittura nei programmi TV, si utilizzano falsi fotografici con immagini di altri eccidi, spacciati come uccisioni da parte dei partigiani jugoslavi; per assurdo, perfino la foto di un’esecuzione da parte di truppe italiane ai danni di ostaggi sloveni (come accaduto a Porta a Porta, senza nemmeno un richiamo formale da parte della Rai o dell’Ordine dei Giornalisti a Bruno Vespa).
A seguire, una serie di 8 articoli ben realizzati con tanto di documenti e studi che fanno luce su questa “Giornata” partendo dai numeri reali, dall’inconsistenza storica del concetto “foibe” e dal materiale manipolato.
Tutto questo, nulla toglie alle reali vittime che morirono in quella concitata e confusa parentesi storica, sia italiane che di qualsiasi altra nazionalità o etnia, ma è doveroso non cadere nella trappola del revisionismo, in questo caso per scopi di riabilitazione fascista e discredito sulla resistenza, con un “ricordo” che non è storia, fatto di miti, numeri inventati, criminali decorati, che primo fra tutto, manca proprio di rispetto e di degna commemorazione a chi vittima lo è stato per davvero.
Marcello Colasanti
PS: gli 8 articoli riportano in fondo i link all’originale.
Le foibe fra mito e realtà: intervista ad Alessandra Kersevan
Non è mai stato semplice trattare la questione delle foibe: stereotipi consolidati, revisionismo, metodologie di lavoro inesatte e giochi politici dei vari schieramenti hanno sempre invaso il terreno della ricerca storica. In questi ultimi anni è stata ottenuta la costruzione di una verità ufficiale, fin troppo sbrigativa e di comodo, che ha dato il via a commemorazioni, monumenti, lapidi, intitolazioni di strade.
Alessandra Kersevan, ex insegnante ed oggi paziente ricercatrice di storia e cultura della sua regione, il Friuli, da anni lavora al recupero della memoria storica in merito agli avvenimenti del confine orientale.
A Trieste la storia non comincia il 1° maggio 1945…
Sì, Sembra un’osservazione banale, eppure di fronte a tante cose che sono state scritte in questi anni sulle vicende del confine orientale occorre chiarire e ricordare che il fascismo in questa regione è stato più violento che in qualsiasi altra parte d’Italia: sloveni e croati, oltre cinquecentomila persone che abitavano le terre annesse dallo stato italiano dopo la prima guerra mondiale furono oggetto di persecuzioni razziali e ogni tipo di angherie: divieto di usare la loro lingua, chiusura delle scuole, delle associazioni ed enti economici sloveni e croati, arresto degli oppositori, esecuzioni di condanne a morte decise dal Tribunale Speciale. Con l’aggressione nazifascista alla Jugoslavia, nel 1941, la nostra regione divenne avamposto della guerra e le persecuzioni contro sloveni e croati, anche cittadini italiani, divennero ancora più gravi: interi paesi furono deportati nei campi di concentramento come Arbe/Rab, oggi in Croazia, ma allora annessa all’Italia dopo l’aggressione alla Jugoslavia, Gonars in provincia di Udine, Renicci di Anghiari in provincia di Arezzo, Chiesanuova di Padova, Monigo di Treviso, Fraschette di Alatri in provincia di Frosinone, Colfiorito in Umbria, Cairo Montenotte in provincia di Savona e decine e decine di altri, praticamente in tutte le regioni d’Italia. Fra 7 e 11 mila persone, donne, uomini, bambini, intere famiglie, morirono in questi campi, di fame e malattie. A Trieste nel 1942 fu istituito per la repressione della resistenza partigiana l’Ispettorato Speciale di Polizia per la Venezia Giulia, che si macchiò di efferati delitti contro gli antifascisti in genere, ma soprattutto contro sloveni e croati.
Da chi è stato inaugurato l’uso delle foibe?
Ci sono testimonianze autorevoli (per esempio dell’ispettore di polizia De Giorgi, colui che nel dopoguerra fu incaricato dei recuperi dalle foibe) che furono proprio uomini dell’Ispettorato speciale, in particolare quelli della squadra politica, la cosiddetta banda Collotti, a gettare negli “anfratti del Carso” degli arrestati che morivano sotto tortura. Comunque andando anche più indietro nel tempo, già durante la prima guerra mondiale, che fu combattuta soprattutto in queste terre, le foibe venivano usate come luogo di sepoltura “veloce” dopo le sanguinose battaglie, e nell’immediato dopoguerra i fascisti pubblicavano testi di canzoncine in cui si minacciava di buttare nelle foibe chi si ostinava a non parlare “di Dante la favella”.
Che funzione aveva la Banda Colotti?
La banda Collotti era la squadra politica dell’Ispettorato speciale guidata appunto dal commissario Gaetano Collotti. Con la sua squadra batteva il Carso triestino per reprimere la resistenza che già nel ’42 era iniziata in queste zone. Si macchiarono di efferati delitti, torturando e uccidendo centinaia di persone. Come Resistenzastorica stiamo pubblicando con la casa editrice Kappa Vu la ricerca di Claudia Cernigoi sulla banda Collotti. Nel corso di alcuni anni di ricerche Cernigoi è riuscita a trovare una quantità consistente di documentazione. Eppure in questo dopoguerra nessuno, neppure gli istituti storici di Trieste e di Udine, avevano pubblicato nulla sull’argomento.
Definiamo le foibe. Chi ci è finito dentro? Donne? Bambini? Quanti in tutto? Perché c’è così grande attenzioni su queste esecuzioni, mentre in altre zone ce ne furono in numero assai maggiore?
Nelle foibe non sono finite donne e bambini, i profili di coloro che risultano infoibati sono quasi tutti di adulti compromessi con il fascismo, per quanto riguarda le foibe istriane del ’43, e con l’occupatore tedesco per quanto riguarda il ’45. I casi di alcune donne infoibate sono legati a fatti particolari, vendette personali, che non possono essere attribuiti al movimento di liberazione. Questo diventa evidente quando si vanno ad analizzare i documenti, cosa che purtroppo la gran parte degli “storici” in questi anni non ha fatto, accontentandosi di riprendere i temi e le argomentazioni della propaganda neofascista. Va detto inoltre che i numeri non sono assolutamente quelli della propaganda di questi anni: è ormai assodato che in Istria nel ’43 le persone uccise nel corso della insurrezione successiva all’8 settembre sono fra le 250 e le 500, la gran parte uccise al momento della rioccupazione del territorio da parte dei nazifascisti; nel ’45 le persone scomparse, sono meno di cinquecento a Trieste e meno di mille a Gorizia, alcuni fucilati ma la gran parte morti di malattia in campo di concentramento in Jugoslavia. Uso il termine “scomparsi”, ma purtroppo è invalso l’uso di definire infoibati tutti i morti per mano partigiana. In realtà nel ’45 le persone “infoibate” furono alcune decine, e per queste morti ci furono nei mesi successivi dei processi e delle condanne, da cui risultava che si era trattato in genere di vendette personali nei confronti di spie o ritenute tali. C’è poi l’episodio della foiba Plutone, da cui furono estratti 18 corpi, in cui gli “infoibatori” erano appartenenti alla Decima Mas e criminali comuni infiltrati fra i partigiani, e furono arrestati e processati dagli stessi jugoslavi. Insomma se si va ad analizzare la documentazione esistente si vede che si tratta di una casistica varia che non può corrispondere ad un progetto di “pulizia etnica” da parte degli jugoslavi come si è detto molto spesso in questi anni.
La grande attenzione a questi fatti è funzionale alla criminalizzazione della resistenza jugoslava che fu la più grande resistenza europea. Di riflesso si criminalizza tutta la resistenza, e si è aperto il varco per criminalizzare anche quella italiana, come sta dimostrando ora Pansa con i suoi libri.
Gli studiosi delle foibe. Chi sono?
Sono di svariati generi. Quelli che noi chiamiamo un po’ ironicamente i “foibologi” sono tutti esponenti della destra più estrema, alcuni, come Luigi Papo hanno fatto addirittura parte della milizia fascista in Istria, di coloro cioè che collaborarono con i nazisti nella repressione della resistenza. Altri, più giovani, come Marco Pirina, sono stati esponenti di organizzazioni neofasciste negli anni della strategia della tensione (lui per esempio risulta coinvolto nel golpe Borghese). Poi c’è il filone degli storici che facevano riferimento al CLN triestino (organizzazione non collegata con il CLNAI) che fu il massimo organizzatore dell'”operazione foibe” a Trieste nel dopoguerra. Mentre può essere abbastanza facile capire le manipolazioni della “storiografia” fascista, è molto più difficile difendersi dalle manipolazioni della storiografia ciellenista, perché questi hanno un’aura di antifascismo che fa prendere per buone tutte le cose che scrivono. In realtà leggendo i loro libri ti accorgi che sono citazioni di citazioni da altri libri (spesso memorie di fascisti) non sottoposte a verifica. Il problema è che su tutta questa questione delle foibe ha pesato nel dopoguerra il clima della guerra fredda: voglio ricordare che un importantissimo documento di fonte alleata agli inizi del ’46 diceva: sospendiamo, non avendo trovato nulla di interessante, le ricerche nel pozzo della miniera di Basovizza, ma perché gli Jugoslavi non possano dire che è stata tutta propaganda contro di loro, diremo che lo abbiamo fatto per mancanza di mezzi tecnici adeguati. Ha pesato e pesa inoltre molto la questione dei confini, e il sentimento delle “terre ingiustamente perdute”, che anche se con toni un po’ diversi, coinvolge anche gli storici che fanno riferimento politicamente al centro sinistra. Ci sono però anche tantissimi storici seri. Per “seri” intendo quelli che non si accontentano di quello che è già stato scritto, ma che cercano nuova documentazione, la analizzano, la confrontano con quanto è già stato pubblicato e inseriscono gli avvenimenti nel contesto in cui sono avvenuti. Questo è il metodo storiografico che tutti dovrebbero usare, ma, sembrerà incredibile, nella questione della foibe e dell’esodo anche storici accademici e “blasonati” si sono lasciati andare a metodi da propagandisti più che da storici, preferendo le citazioni di citazioni di citazioni, piuttosto che la fatica della ricerca.
La foiba di Basovizza. C’è una lapide che commemora le vittime, eppure la storia sembra molto diversa…
La documentazione esistente, una documentazione piuttosto corposa, dice che nella miniera di Basovizza non ci furono infoibamenti. Già nell’estate del ’45, quindi pochissimo tempo dopo i pretesi infoibamenti, gli angloamericani procedettero per mesi a ricognizioni nel pozzo della miniera (infatti non si tratta di una foiba in senso geologico), in seguito alle denunce del CLN triestino che diceva che dovevano essere stati infoibati alcune centinaia di agenti della questura di Trieste. Poiché non fu trovato nulla di “interessante”, nei primi mesi del ’46 le ricerche furono sospese, come ho già spiegato prima. Tutto questo risulta da una gran quantità di documenti di fonte alleata, negli archivi di Washington e di Londra. Quindi nella “foiba” non ci sono i “500 metri cubi” di infoibati che sono scritti nella lapide, e neppure i duemila infoibati citati in libri. Dopo che Claudia Cernigoi ha riportato questi documenti nel suo libro “Operazione foibe a Trieste” la cosa dovrebbe essere evidente a tutti che si occupano dell’argomento. Ma si fa finta di niente. Il comune di Trieste adesso ha ristrutturato il monumento sulla foiba e presto verrà il presidente del Senato Marini a inaugurarlo. La menzogna vive ormai di vita propria, e non si riesce a fermarla.
Le leggende sulle foibe.
Ho già spiegato che le biografie della gran parte degli uccisi sono di persone coinvolte a vario titolo nel regime fascista prima e nell’occupazione nazista poi. Come ben mette in luce Claudia Cernigoi nel suo libro, in una città come Trieste il collaborazionismo interessò tantissime categorie di persone, e molti di quelli che vengono definiti “civili” erano in realtà e collaborazionisti, delatori di professione, spioni di quartiere che denunciavano gli ebrei. Per esempio ai rastrellamenti sul Carso con la banda Collotti partecipavano anche persone che non erano ufficialmente appartenenti alla questura. Come gruppo di Resistenzastorica abbiamo condotto una ricerca sulla vicenda di Graziano Udovisi, conosciuto come “l’unico ad essere uscito vivo dalla foiba” e presentato come una vittima “solo perché italiano”. Da questa ricerca è emerso, oltre alla assoluta falsità del suo racconto, che egli dal ’43 al ’45 era stato tenente della Milizia Difesa Territoriale, in un gruppo dal nome significativo di “Mazza di Ferro”, specificamente preposto alla repressione della guerriglia, e che nel ’46 fu condannato per crimini di guerra a 2 anni e 11 mesi di reclusione. Eppure nel 2005 Graziano Udovisi è diventato “uomo dell’anno”, premiato con l’Oscar della Rai per una sua intervista a Minoli, che lo ha presentato come uno che è stato “infoibato” “solo perché italiano. Come ho già detto: storici, giornalisti e tutti coloro che scrivono di queste cose in questi anni di Giornate del Ricordo, dovrebbero sapere che intorno a queste vicende c’è tanta propaganda, e che quindi bisogna informarsi bene prima di scrivere.
L’atteggiamento della destra e della sinistra.
Non si vede una grande differenza. La destra fascista ha trovato in questo argomento la possibilità di ribaltare il discorso delle responsabilità nella seconda guerra mondiale, passando da carnefici a vittime, con la possibile riabilitazione dei repubblichini di Salò ecc. La sinistra ha trovato l’occasione per prendere le distanze dal proprio passato partigiano, con tutta una serie di distinguo e di “ammissioni” in cui le foibe erano funzionali in quanto venivano attribuite a partigiani, sì, ma “slavi” (e si sa che il razzismo antislavo è molto diffuso) e quindi la resistenza italiana poteva restarne fuori. La miopia di una simile posizione la si vede oggi, con un’operazione come quella di Giampaolo Pansa, che attacca direttamente la resistenza italiana.
C’è da dire, inoltre, che l'”operazione foibe” è funzionale alla politica estera italiana, tradizionalmente “espansionistica” verso la penisola balcanica. Anche in questo senso, centrodestra e centrosinistra non si distinguono. Noi di Resistenzastorica abbiamo una raccolta impressionante di dichiarazioni di esponenti del centro sinistra in senso neoirredentista, cioè tese alla rivendicazione delle “terre perdute”, tema che oltre ad essere stato sempre tipico della destra, sembrerebbe oggi anche antistorico, nel momento dell’allargamento dell’UE. Eppure le dichiarazioni ci sono, anche di personaggi come Fassino.
Che cosa significa oggi commemorare i morti delle foibe?
Come ho spiegato, commemorare i morti nelle foibe significa sostanzialmente commemorare rastrellatori fascisti e collaborazionisti del nazismo. Per gli altri morti, quelli vittime di rese dei conti o vendette personali, c’è il 2 di novembre.
Che cosa andrebbe fatto per restituire dignità alla memoria storica del paese?
Per quanto riguarda la dignità del paese, credo che l’unica cosa da fare sia smettere quella convinzione nazionale che gli italiani siano sempre stati “brava gente”, che dovunque sono andati hanno portato la civiltà, anche quando bruciavano i villaggi della Croazia, o impiccavano i ribelli libici. Gli italiani debbono rendersi conto che la repubblica italiana non ha mai fatto veramente i conti con le responsabilità del fascismo. Dietro al discorso delle foibe c’è proprio l’interesse di continuare a nascondere queste responsabilità. Infatti la proposta italiana di incontro trilaterale fra i presidenti di Italia, Slovenia, Croazia, sui luoghi della memoria, inserendo la Risiera di San Sabba, il campo di concentramento di Gonars (o quello di Arbe) e la foiba di Basovizza, non è altro che un tentativo di gettare fumo negli occhi, di far dimenticare i crimini di guerra italiani in quei territori equiparando la foiba di Basovizza alla Risiera, unico campo di concentramento nazista con forno crematorio, in cui morirono oltre 3000 persone, soprattutto partigiani italiani, sloveni e croati, o ai campi di concentramento in cui morirono almeno settemila sloveni, croati, serbi, montenegrini. Il presidente della Repubblica dovrebbe andare di propria iniziativa ad Arbe in Croazia, o a Gonars a rendere omaggio alle vittime del fascismo, e a chiedere scusa agli ex jugoslavi. Questo dovrebbe essere la prima cosa da fare. Poi dovrebbe far pubblicare i risultati della commissione storica italo-slovena, che il governo italiano si era impegnato a pubblicare ma non ha mai fatto. Poi il governo di centro sinistra potrebbe obbligare la RAi a trasmettere in prima serata il documentario “Fascist legacy / L’eredità fascista”, sui crimini di guerra italiani in Etiopia, Libia e Jugoslavia. Questo documentario della BBC fu acquistato nell’89 dalla RAI, ma mai trasmesso.
Il #Giornodelricordo: dieci anni di medaglificio fascista. Un bilancio agghiacciante.
di Nicoletta Bourbaki (*)
1. Un presidente piccolo piccolo
Quest’anno il Giorno del Ricordo non è passato proprio liscio liscio.
Prima, la campagna sui falsi fotografici che abbiamo lanciato su Giap è arrivata sui media mainstream sia in Italia (L’Espresso) sia in Slovenia (Mladina).
In seguito, la notizia del conferimento dell’onorificenza ai congiunti del volontario del Battaglione «Mussolini»Paride Mori ha scoperchiato un vaso di Pandora. Poche settimane dopo il 10 febbraio, il Corriere ha pubblicato un articolo a firma di Alessandro Fulloni («Foibe, 300 fascisti di Salò ricevono la medaglia per il Giorno del Ricordo»), in cui si parla di ben trecento onorificenze – sulle mille assegnate a partire dal 2005 – attribuite a militari inquadrati nelle formazioni collaborazioniste della RSI.
A livello nazionale la notizia ha destato un certo scalpore, ma chi ha la memoria lunga e l’abitudine a guardare oltre il cortile di casa propria, ricorda bene che già nel 2007 era successo un discreto casino.
All’epoca Napolitano pronunciò un discorso passato alla storia, o perlomeno alla cronaca. Discorso che, tra le altre cose, conteneva la plateale manipolazione di un passo dello storico Raoul Pupo:
Pupo: «Il quadro che si offre all’analisi storica è dunque decisamente articolato, perché nei fatti dell’autunno del 1943 sembrano intrecciarsi più logiche: giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e faide paesane, oltre a un disegno di sradicamento del potere italiano – attraverso la decimazione e l’intimidazione della classe dirigente – come precondizione per spianare la via a un contropotere partigiano che si presentasse in primo luogo come vendicatore dei torti, individuali e storici, subiti dai croati dell’Istria.»
Napolitano: «Così, si è scritto, in uno sforzo di analisi più distaccata, che già nello scatenarsi della prima ondata di cieca violenza in quelle terre, nell’autunno del 1943, si intrecciarono “giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento” della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia.»
Lo sradicamento del potere italiano diventava tout court sradicamento della presenza italiana; l’Istria diventava l’intera Venezia Giulia; scomparivano il contropotere partigiano e, soprattutto, i torti subiti dai croati.
Dopodiché, Napolitano consegnò la medaglia di acciaio brunito con la scritta «La Repubblica italiana ricorda» al figlio o al nipote di Vincenzo Serrentino, ultimo prefetto di Zara.
Il Presidente croato Stjepan Mesić non prese bene né il discorso di Napolitano (soprattutto per il revanscismo che traspariva da un passaggio sul confine del ’47) né l’onorificenza consegnata a Serrentino.
Infatti, chi è ‘sto Serrentino, che su Wikipedia, fino a stamane, era catalogato tra le “vittime delle dittature comuniste”?
Durante l’occupazione nazifascista della Jugoslavia, Serrentino fu uno dei tre componenti del Tribunale Straordinario della Dalmazia, un organo “giudiziario” alle dirette dipendenze del Governatore Bastianini, creato a scopo repressivo per terrorizzare la popolazione civile in funzione antipartigiana.
Il tribunale comminò decine di condanne a morte, eseguite seduta stante, dopo processi lampo indiscriminati, basati sul principio della responsabilità collettiva. Per tale motivo Serrentino venne catturato a Trieste dai partigiani jugoslavi nel 1945, processato come criminale di guerra, e fucilato a Sebenico nel 1947.
Non solo: persino la commissione italiana per i crimini di guerra, istituita con lo scopo preciso di insabbiare, insabbiare, insabbiare, nel 1946 inserì Serrentino nella lista dei (pochi) criminali deferiti all’autorità militare.
Ma come, si chiederanno i meno informati, le medaglie non devono andare ai parenti degli “infoibati”? Serrentino non è mica finito in una foiba…
Beata ingenuità. Il termine “foibe”, come scrivono Pupo & Spazzali in un loro rinomato libro (Foibe, Bruno Mondadori, Milano 2003), «va accolto, purché si tenga conto del suo significato simbolico e non letterale». Si usa “foibe” per intendere «le violenze di massa a danni di militari e civili, in larga prevalenza italiani, scatenatasi nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 in diverse aree della Venezia Giulia e che nel loro insieme procurarono alcune migliaia di vittime.» E anche se a parere dei due storici «sarebbe più appropriato parlare di “deportati” e “uccisi” per indicare tutte le vittime della repressione», ormai tutti parlano di “foibe” e “infoibati”, e quindi pure loro si adeguano.
Anche Gianni Oliva dice che il termine ha «un carattere simbolico» e il suo uso «va accompagnato dall’avvertenza che buona parte delle vittime (probabilmente la maggior parte) non è stata eliminata nelle foibe» (Foibe, Mondadori, Milano 2002).
A questo punto, un lettore attento potrebbe domandarsi:
«Ma se persino gli storici più citati nel dibattito mainstream, quelli ospitati da Vespa, dicono che le vittime sono alcune migliaia di cui la maggior parte è morta in altre circostanze, dove vanno a finire gli italiani gettati “a decine di migliaia” nelle foibe ancora vivi e legati l’uno all’altro con fil di ferro di cui ho letto su Facebook e/o sentito dire da Giorgia Meloni?»
Bella domanda, sarebbe bello sentirla fare più spesso. Quando la sentono, i fascisti “sopperiscono” alla mancanza di fonti e di prove… urlando. E qui vale la pena ripescare un epigramma di Beppe Fenoglio:
[LXIV] A BALBO
Balbo oratore, delle due l’una:
o rinforzi il concetto o indebolisci la voce.
2. Aguzzini nella nebbia
Il caso di Serrentino non è certo stato l’unico prima di Mori. Nonostante la fitta nebbia che circonda l’edificio del GdR (una via di mezzo tra la nebbia di The others di Amenabar e quella di The mist di Stephen King), alcuni storici come Sandi Volk eMilovan Pisarri sono riusciti, negli anni, a recuperare i nomi di decine di “decorati” ehanno scoperto parecchie cose. Tre esempi di decorati:
Luciani Bruno, riconoscimento ricevuto nel 2007. Dal suo dossier (AJ, fondo 110, busta 231, f. br. 24206):
«[…] Il giorno 27 novembre 1944 venne arrestata Varich Wilma dagli agenti Ciarlenco e Luciani, membri della polizia di Collotti, e venne portata nel carcere in via Bellosguardo. Qui venne interrogata. Venne legata al tavolo, picchiata e presa a pugni; questo venne fatto dal brigadiere Ciarlenco. Vedendo i torturatori che non aveva intenzione di dire nulla, cominciarono a bruciarle le mani, le gambe e le guance con l’elettricità. Dopo un’ora fu portata in cella. Il giorno successivo fu trasportata nel carcere presso i Gesuiti. Dopo ottanta giorni fu nuovamente interrogata e torturata nel carcere in via Cologna, poi trasferita al Coroneo e dopo due mesi fu internata in Germania.»
Privileggi Iginio, riconoscimento ricevuto nel 2007. Dal suo dossier (AJ, fondo 110, busta 214, f. br. 21168):
«[…] Il giorno 2 febbraio 1944 arrestarono Pribetić Ivan, che venne portato in carcere, maltrattato e picchiato; venne picchiato in particolare dal fascista Privileggi. Lo stresso giorno si recarono a Nova Vasi e arrestarono Viggintin Petar, che venne portato a Parenzo e ucciso con una mitragliatrice poco distante dall’abitazione di Mate Vlašić. Nel corso di questa esecuzione vennero riconosciuti i fascisti Kovačič Mario e Destilatis Ennio. In quell’occasione diedero fuoco alla casa di Vlašić Mate, e quando Vlašić Petar tentò di spegnere l’incendio, i fascisti lo presero e lo portarono al cimitero, dove venne ucciso con una raffica di mitragliatrice. A quest’esecuzione parteciparono Privileggi Iginio e Ramarro Luigi. Allo stesso modo uccisero sempre a Nova Vasi Brnobić Ivan e sua moglie Vitkorija, Orahovac Antun, Jerovac Mate, Radin Gašpare, Sorčič Bruno (…).
Il criminale sopraindicato è stato liquidato dalle nostre autorità come risulta dal rapporto della Commissione per i crimini di guerra in Istria numero 389.»
Stefanutti Romeo, riconoscimento ricevuto nel 2006 e nel 2007. Dal suo dossier (AJ, fondo 110, busta 230, f. br. 24016):
«I fascisti di diverse guarnigioni, e in particolare di quella di Oprtalj, commisero nel corso del 1944 nel territorio di Buzet una serie di crimini nei confronti della pacifica popolazione locale, con lo scopo di annientarla e di appropriarsi dei loro beni. La Commissione per i crimini di guerra in Istria ha accertato che in quel periodo critico, il milite Stefanutti Romeo partecipò personalmente ai crimini di seguito descritti […] Dalla fine del gennaio 1944 fino alla fine del giugno dello stesso anno, nel territorio di Buzet, senza alcun motivo vennero uccisi i seguenti civili: Grizančić Mate, Grizančić Andjelo (questi venne portato al cimitero nel paese di Salež dove gli vennero cavati gli occhi, tagliate le orecchie, mentre il suo corpo venne martoriato con il coltello; poi fu fucilato), Zonta Miha, Zonta Antun, una certa Ana di Zrenja il cui cognome non si conosce (venne sgozzata), Pruhar Ivan, Mušković Antuna (venne ucciso mentre badava ai suoi tacchini, che vennero poi rubati dai fascisti), Kodelij Antun e Prodan Antun; inoltre, saccheggiarono e incendiarono 14 abitazioni, mentre arrestarono due persone e li mandarono nei campi in Germania.»
La lista più completa e aggiornata dei decorati si trova sul sito «10 Febbraio 1947» (pdf).
Eppure il testo della legge istitutiva del Giorno del Ricordo sembra chiaro:
«Sono esclusi dal riconoscimento coloro che sono stati soppressi nei modi e nelle zone di cui ai commi 1 e 2 mentre facevano volontariamente parte di formazioni non a servizio dell’Italia.»
Com’è possibile che i militari della RSI, collaborazionisti degli occupatori nazisti, ricevano l’onorificenza? Vuoi vedere che…
3. Salvate il camerata Barbagli
Inopinatamente, una traccia ce la dà l’uomo che si fa chiamare Presbite, che si è più volte dichiarato persona informata dei fatti, in una discussione avvenuta nei meandri di Wikipedia:
«La prima formulazione era già contenuta all’interno del primissimo progetto di legge (quello presentato solo da aennini). La finalità era quella di evitare che si presentasse a chiedere la decorazione uno che era morto mentre combatteva per le formazioni inquadrate nell’EPLJ! E allora hanno messo questa formula “a fisarmonica”, presa paro paro dal primo progetto. In questa maniera è vero che non possono essere premiati quelli – per esempio – delle SS italiane, ma quelli sono già dannati e stradannati e gli ex missini tutto sommato sapevano benissimo che fin lì non potevano spingersi. Loro volevano proprio cercare di “salvare” quelli dalla RSI morti infoibati (quelli in combattimento non possono essere decorati).»
E in effetti, leggendo gli atti del dibattito parlamentare sulla legge istitutiva del Giorno del Ricordo, il punto di maggior contrasto tra coloro che votarono a favore risulta essere stato proprio quello riguardante la possibilità di conferire la decorazione ai repubblichini. Nella sua relazione introduttiva, Roberto Menia disse esplicitamente che si sarebbe dovuto dare un riconoscimento ai volontari del Btg. “Mussolini” e della X Mas. Tale possibilità fu contestata dall’ Ulivo, che però non riuscì a far passare i propri emendamenti. L’ultimo intervento al Senato fu quello di Marcello Basso, che disse:
«[…] intervengo sul provvedimento “Istituzione del «Giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati”, perché turbato dalla lettura dei Resoconti pervenutici dalla Camera dei deputati; perché scosso dal fatto che negli interventi dei deputati, ma anche dei senatori, della destra non ci sia alcun riferimento alla guerra di aggressione dell’Italia fascista e della Germania nazista alle popolazioni della Iugoslavia, anche da parte di chi, lo voglio dire, autorevole rappresentante della Lega, andava in tempi assolutamente recenti in pellegrinaggio da Milošević; perché scandalizzato dal fatto che nella relazione al provvedimento l’onorevole Menia citi in positivo l’opera dei reparti della X MAS e del Battaglione bersaglieri Mussolini sul confine orientale; scorato, altresì, dal fatto che non emerga sforzo alcuno per capire il contesto storico che ha originato la grande tragedia delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata; preoccupato – anche questo voglio dire – da talune recrudescenze irredentiste. Si parte, magari come fa il senatore Servello, dalla richiesta della restituzione dei beni agli esuli, per poi magari pretendere la restituzione dei territori.»
Oggi sappiamo che i timori espressi da Basso erano più che fondati. Lo sapevamo già allora, a dire il vero. Lo sapevamo fin dal 1996, quando Menia, presentando la sua primissima proposta di legge, disse in aula:
«I partigiani titini, a seguito dell’8 settembre 1943, per circa sessanta giorni infierirono su quanto d’italiano vi era in quella terra della frontiera orientale. Ributtati nelle loro zone di origine dalle armi tedesche e da quelle della Repubblica sociale italiana, tornarono con la fine della guerra e, dal maggio 1945 – padroni incontrastati della situazione – completarono le loro vendette con altri massacri, con altre stragi.»
Ci chiediamo allora perché a suo tempo Basso e altri dubbiosi avessero comunque votato a favore. La risposta probabilmente è: ordine di scuderia. Perché il Giorno del Ricordo è stato il punto d’arrivo di un progetto di lungo corso, di un patteggiamento di Fassino e Violante direttamente con Fini e Menia.
Gli “ex comunisti” del PDS volevano costruire nientemeno che la “memoria condivisa”.
I “post fascisti” volevano semplicemente riabilitare i repubblichini.
E’ del tutto evidente che la posizione dei primi fosse perdente, oltre che stupida, sbagliata e incompatibile con i principi dell’antifascismo, e quindi coi fondamenti stessi della Repubblica. La posizione dei secondi invece è del tutto coerente con la storia da cui provengono. Solo l’ottusità – o il cinismo – della classe politica del centrosinistra può spiegare la decisione di svendere in quel modo i principi dell’antifascismo, calpestando il buon senso e qualunque serietà nell’approccio al tema del rapporto storia-memoria: la memoria non è e non può essere condivisa, è un fatto individuale o di gruppo. Solo nei regimi totalitari c’è una memoria condivisa di stato.
Il tentativo di imporre una memoria condivisa ha avuto effetti devastanti su tutta la vita del Paese, a cominciare dal mondo della scuola. Grazie al Giorno del Ricordo, scuole e musei sono obbligati per legge – e da pressioni politiche – a organizzare iniziative con associazioni di esuli come l’ANVGD e l’Unione degli Istriani. In questa intervista al gruppo musicale neofascista La Compagnia dell’anello, il frontman Bortoluzzi racconta che nelle scuole si fanno cantare ai bambini le canzoni revansciste della band:
«Una delle più grosse soddisfazioni rimane però il ricevere le richieste dello spartito di Di làdall’acqua da parte di insegnanti che fanno cantare ai cori delle scuole la nostra canzone.»
Insomma si sono fatti passare come sacerdoti di una verità “di tutti” i detentori di una memoria che fino a pochi anni fa era confinata all’estrema destra.
Ricordiamo che, come non manca di far notare Bortoluzzi, un verso di Di là dall’acqua – «Perché in Dalmazia non ti sembri strano / anche le pietre parlano italiano» – è usato da Simone Cristicchi nel suo spettacolo Magazzino 18.
4. The mist
Ma torniamo alle onorificenze ai repubblichini. Chi ne ha deciso concretamente l’assegnazione? La legge affida questo compito a una commissione formata da 10 persone:
– quattro sono militari degli uffici storici degli stati maggiori delle forze armate (esercito, marina, aeronautica, arma dei carabinieri);
– quattro sono rappresentanti delle associazioni degli esuli;
– uno è nominato dalla presidenza del consiglio;
– uno è nominato dal ministero degli interni.
Pare che sia prassi consolidata che i due membri di nomina politica siano anch’essi dei militari.
I nomi dei membri della commissione non sono di pubblico dominio. Nemmeno i nomi dei decorati lo sono. Scartabellando sul sito del Ministero della Difesa, si possono comunque trovare i nomi dei militari degli uffici storici (aggiornati al 15-3-2012):
Col. Antonio Zarcone, C.V. Francesco Loriga, Col. Vittorio Cencini e Col. Paolo Aceto,come si può vedere da qui.
Invece qui scopriamo che nel 2012 il presidente della commissione era l’Ammiraglio di Squadra Alessandro Picchio, e qui che il Gen. Riccardo Basile è stato membro della commissione fino alla sua morte nel 2014.
Dal sito dell’ ANVGD veniamo a sapere il nome di uno dei rappresentanti degli esuli:Marino Micich.
Sugli altri nomi nebbia fitta. C’è un’interrogazione parlamentare in corso, a cui finora non è stata data risposta. Nebbia ancora più fitta avvolge i lavori di questa commissione e le procedure di conferimento delle insegne. Tutte le richieste sono state accolte? Come si è deciso quali accogliere? Come sono avvenute le verifiche?
Inoltre, secondo la legge, le richieste sarebbero dovute arrivare entro dieci anni dall’entrata in vigore della legge stessa (quindi entro aprile del 2014). Le insegne e i diplomi consegnati lo scorso febbraio in occasione del Giorno del Ricordo dovrebbero dunque essere stati gli ultimi. Allora la commissione è sciolta? E la documentazione, come previsto, è stata già versata all’Archivio di Stato?
5. Ritorneremo!
La medaglia e la pergamena invece sono questi:
Come si può notare, nella pergamena compaiono anche i nomi delle “province perdute”: Pola, Fiume, Zara. È come se un’onorificenza britannica riportasse Dublin, Bombay, Rhodesia. Anche questo aspetto revanscista era ampiamente prevedibile e previsto. Nel 2003 Menia, presentando la sua terza proposta di legge, disse in aula:
«Ci sono pagine, nella storia dei popoli e degli uomini, che grondano di dolore e di ingiustizia. Oltre cinquant’anni fa con il Trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, reso esecutivo dal decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato n. 1430 del 1947, si scrisse una di quelle pagine. Essa sancì la mutilazione territoriale delle terre orientali d’Italia e la perdita della gran parte della Venezia Giulia e della Dalmazia […]»
Concetto peraltro ribadito anche da Napolitano nel suo discorso del 2007:
«Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una “pulizia etnica”»
Per uno di quei giochi strani che fa la vita, mentre gli “ex comunisti” del PDS si appiattivano completamente sulla vulgata della propaganda neofascista triestina, elaborata a partire dagli anni Quaranta e sdoganata a livello nazionale a partire dagli anni novanta, per ascoltare qualcosa di ragionevole in quegli anni bisognava rivolgersi a uno storico come Galliano Fogar, partigiano azionista, e senza dubbio oppositore della Jugoslavia di Tito (sottolineatura nostra):
«Non è un caso che il 10 febbraio preso dalla destra come simbolo della tragedia (ma foibe ed esodo sono due cose distinte) è la data della sigla del Trattato di Pace di Parigi. Ma questi signori non spiegano che l’Italia era sul banco degli imputati e che la gran parte dell’Istria e Fiume furono perdute non certo per colpa dei partigiani ma per le precise colpe del fascismo e della sua violenta opera snazionalizzatrice prima e per l’invasione della Jugoslavia poi.»
6. The end
E oggi? Il bilancio, a dieci anni dall’istituzione del Giorno del Ricordo, è agghiacciante. Tra foto farlocche, onorificenze a nazifascisti assortiti, e discorsi ufficiali privi di qualunque fondamento storico, il GdR sembra essere diventato uno dei pilastri dell’identità nazionale italiana, a suggello di un ripugnante “patteggiamento della memoria” tra “ex comunisti” e “post fascisti”. L’epitome perfetta del paese reale.
–
* Nicoletta Bourbaki è il nome usato da un gruppo di inchiesta su Wikipedia e le manipolazioni storiche in rete, formatosi nel 2012 durante una discussione su Giap. Con questa scelta, il gruppo omaggia Nicolas Bourbaki, collettivo di matematici attivo in Francia dal 1935 al 1983.
***
Se a questo punto avete l’impressione che molte cose non tornino nella narrazione sulle foibe imperversante nei media, consigliamo la lettura di:
FOIBE O ESODO? 24 FAQ PER IL «GIORNO DEL RICORDO» – di Lorenzo Filipaz
e, a seguire, del nostro dossier sui falsi fotografici in tema di foibe:
COME SI MANIPOLA LA STORIA ATTRAVERSO LE IMMAGINI: IL GIORNO DEL RICORDO E I FALSI FOTOGRAFICI SULLE FOIBE – di Piero Purini e Nicoletta Bourbaki.
Dopodiché, avrete gli elementi per capire la portata delle distorsioni e manipolazioni compiute sulla Wikipedia in lingua italiana, raccontate in:
WIKIPEDIA E LA STORIA DETURPATA: IL CASO PRESBITE – di Nicoletta Bourbaki
E anche quale operazione ideologica sia stata fatta per il tramite di Cristicchi e del suo spettacolo Magazzino 18, come spiegato in:
QUELLO CHE CRISTICCHI DIMENTICA. MAGAZZINO 18, GLI «ITALIANI BRAVA GENTE» E LE VERE LARGHE INTESE – di Piero Purini
Più in generale, si tratta di capire quale velenosa funzione abbia avuto e continui ad avere il vittimismo nella formazione e nel mantenimento dell’ideologia nazionale italiana. Primi elementi di riflessione su questo li trovate in:
TERRORISMO, MIGRANTI, FOIBE, MARO’… APPUNTI SUL VITTIMISMO ITALIANO – di Wu Ming 1
I RICONOSCIMENTI PER GLI INFOIBATI AI CRIMINALI DI GUERRA ITALIANI
di Milovan PisarriOrmai da otto anni, com’è noto, la Repubblica italiana ricorda ogni 10 febbraio le vittime italiane delle foibe e l’esodo degli italiani d’Istria e Dalmazia dalle loro terre d’origine. Nonostante vari studi abbiano nel corso di questi anni dimostrato quanto sia necessaria un’approfondita conoscenza delle vicende belliche e postbelliche di quelle regioni prima di istituire celebrazioni politicamente rischiose, ogni anno le istituzioni fanno letteralmente a gara per organizzare eventi che possano restituire alla memoria collettiva momenti di storia dimenticata. Tra essi, il più importante e carico di significato è certamente la consegna di medaglie al ricordo di persone che persero la vita nelle foibe.
Già da tempo Sandi Volk attraverso pazienti ricerche e confronti, ha dimostrato il senso di questa cerimonia. Nel suo bell’intervento chiarificatore intitolato Che cosa ricorda la Repubblica? pubblicato nel volume Foibe. Revisionismo di Stato e amnesie della Repubblica (Kappavù, Udine 2008), pagine 143-178, ha fatto un’inequivocabile luce sulla legge 92 del 30 marzo 2004 con cui venne istituita la Giornata del Ricordo e soprattutto su chi viene effettivamente ricordato. Dalle sue analisi, condotte soprattutto grazie al confronto delle stesse fonti utilizzate per concedere i riconoscimenti e di altre liberamente disponibili (Albo d’oro di Luigi Papo, Elenco caduti RSI), è emerso chiaramente il quadro di quello che si ricorda: non civili italiani dell’Istria infoibati perché italiani, ma militari italiani inquadrati nelle formazioni repubblichine al servizio dei nazisti in Istria, spesso provenienti da regioni troppo distanti dall’Istria stessa per poter essere considerati istriani, uccisi dai loro nemici partigiani. Infatti, la maggior parte degli oltre duecento premiati al gennaio 2012 sono membri delle forze armate e di polizia morti in varie circostanze nel biennio 1943-45: nel periodo cioè in cui nell’Istria, a Trieste e a Gorizia i tedeschi avevano instaurato l’Adriatische Kunsterland e dove i militari italiani, arruolati esclusivamente su base volontaria, prestavano giuramento direttamente alle autorità naziste. Carabinieri, membri della Guardia di Finanza, poliziotti ma anche numerosi militi della Milizia della Difesa territoriale, di quella milizia cioè che porta enormi responsabilità nella lotta antipartigiana e nei crimini commessi contro civili inermi, inclusa la consegna ai nazisti di numerose persone finite a S. Sabba o nei campi di concentramento in Germania. Numerosi, anzi troppi, anche i cosiddetti civili premiati ex appartenenti alle stesse formazioni armate; diversi anche gli scomparsi, cioè coloro di cui non si è mai saputa la causa di morte (presunta), e di quelli morti addirittura in combattimento; non mancano infine anche persone che hanno ricevuto due volte lo stesso riconoscimento, in anni diversi.
Già questo è di per sé una questione allarmante, paradossale; si ricordano di fatto caduti italiani nazifascisti, ponendo ancora una volta in continuità, verrebbe da dire, l’Italia repubblicana a quella fascista e poi repubblichina. Probabilmente ciò è possibile soprattutto a causa dell’oblio che ancora oggi avvolge i territori istriani, e più in generale di tutti quelli jugoslavi occupati dagli italiani, durante il secondo conflitto mondiale; un oblio che permette l’affermazione politica della peggiore retorica politica, ingombrante e prevaricante nei confronti della sana ricerca storica. Alla decostruzione di tali affermazioni politiche messa in atto da Sandi Volk, ci permettiamo quindi di aggiungere un ulteriore tassello.
Il problema dei riconoscimenti è infatti reso molto più grave dal fatto che tra i vari caduti ricordati dalla Repubblica ci sono anche alcuni criminali di guerra sui quali negli archivi jugoslavi esiste un dossier con capi d’accusa e prove, spesso schiaccianti. Un caso già conosciuto è quello di Vincenzo Serrentino, ultimo prefetto di Zara (nel 1944, si badi bene) fucilato dopo regolare sentenza dalle autorità jugoslave nel 1947. Ai familiari di Serrentino è stato consegnato il riconoscimento nel 2007, senza accennare (ma loro forse lo sapevano, sono tutti gli altri che non lo sanno) al fatto che lo stesso Serrentino ebbe a Zara e Sebenico un ruolo di primo piano nella guerra contro gli antifascisti e nei crimini contro la popolazione civile croata.
Oltre a lui, è stato possibile accertare che altri cinque criminali di guerra sono stati onorati dalle medaglie della Repubblica; cinque nomi di persone i cui dati sono stati verificati prima di essere qui di seguito pubblicati. I dossier originali in lingua serbocroata o slovena sono liberamente consultabili da tutti presso l’Archivio di Jugoslavia, nel fondo numero 110 “Commissione di Stato per l’accertamento dei crimini di guerra degli occupanti e dei collaborazionisti”. Qui si trovano ben ordinati i dossier dei 3.693 criminali di guerra italiani identificati dalle autorità jugoslave nell’immediato dopoguerra. (Urge una precisazione. Come è risaputo, e purtroppo mai abbastanza ripetuto, alla fine della guerra la Jugoslavia cercò l’estradizione di circa 750 criminali di guerra italiani, cosa che naturalmente non avvenne; quello che è però importante sottolineare è che quelli richiesti erano coloro i quali si erano macchiati dei crimini più gravi e dei principali in ordine gerarchico: Roatta, Robotti, il prefetto Testa e così via. In realtà la Commissione jugoslava per l’accertamento dei crimini degli occupanti e dei collaborazionisti accertò grazie ad un minuzioso lavoro di numerose sottocommissioni la responsabilità di 3.693 italiani).
Chi sono dunque i criminali di guerra premiati dalla Repubblica italiana e di cosa sono stati accusati dalle autorità jugoslave? Pubblichiamo alcuni estratti dai loro dossier. Tra parentesi è indicata la collocazione di ogni singolo dossier, per chiunque volesse approfondire o verificare la veridicità di quanto scritto.
1) Bergognini Giacomo. Riconoscimento ricevuto nel 2009
Nel suo dossier (Archivio di Jugoslavia, fondo 110, busta 234, f. br. 24978), è scritto:
Come membro della compagnia di carabinieri di Ajdovšćina nel corso della guerra ha partecipato ai seguenti crimini:
– Durante la guerra, nel comune di Ajdovščina furono arrestati, torturati e dopo oltre un mese di carcere internati 11 uomini: Bajc Matija, Kete Alojz, Zigon Anton, Berlot Anton, Lokar Marijan e Poniz Rihard (…)
– I carabinieri insieme ai fascisti e alla polizia arrestarono nelle frazioni del comune di Ajdovšćina 120 giovani arruolandoli in battaglioni speciali, dai quali ancora non tutti hanno fatto ritorno.
– I carabinieri insieme ai fascisti, alla polizia e alla guarnigione italiana organizzarono il giorno 8 agosto1942 una spedizione criminale a Ustje. I carabinieri avevano istruzioni ben precise, e anche se il maresciallo Marrone era stato ucciso per vendetta dai soldati del reggimento alpino, nonostante ciò guidarono l’azione e bruciarono il giorno suddetto l’intero abitato di Ustje, mettendo a fuoco tutti i beni di 67 proprietari (…). Oltre a ciò radunarono tutta la gente al cimitero, picchiandoli e li minacciandoli di morte. Presero poi 8 uomini, li torturanono di fronte a tutti e poi li uccisero con i coltelli o con il fucile. I nomi dei morti sono: Podgornik Avgust, Evstahi Podgornik, Strancer Metod, Stibil Milan e Anton, Vrtovec Anton, Kante Maks e Uršič Ivan. (…).
2) Cucè Luigi, riconoscimento ricevuto nel 2011.
Dal suo dossier (AJ, fondo 110, busta 128, f. br. 5724):
Il criminale Cucè Luigi, in quanto brigadiere della Guardia di Finanza sull’isola di Pašman durante l’occupazione italiana nel 1943, anche se non rientrava nei suoi doveri, su propria iniziativa ricopriva una carica di polizia superiore alle sue funzioni previste dalla sua professione di capo della Guardia di Finanza locale. Indagava costantemente, denunciava e pereguitava tutti gli antifascisti. Su sua proposta e su sue informazioni venivano effettuati arresti, – invii al Tribunale speciale, invii ai campi di concentramento e fucilazioni di diversi patrioti antifascisti (…)
Il giorno 17 luglio 1943, dalla guarnigione di Sali a Dugi otok giunse sull’isola di Pašman una spedizione punitiva comandata dal famoso criminale, capitano Malocchi Ernesto, composto da soldati del primo battaglione “Granatieri di Sardegna“. Appena sbarcati a Pašman si unì loro il criminale Cucè Luigi, e da lui guidati irruppero nelle case e arrestarono diversi contadini tra i quali: Pedišić Anastasije Šimin, Kraljev Augustin Matin, Pešić Toma Krstin, Kraljev Dragica moglie di Ante, Pedišić Božo Matin, Kraljev Mate figlio del defunto Mate, vecchio di 75 anni. Tutti gli arrestati vennero condotti in barca nel paese di Pašman. Qui vennero rinchiusi nella caserma della Guardia di Finanza, dove i criminali Malocchi e Cucè li interrogarono e li maltrattarono pesantemente fino alle due di pomeriggio, costringendoli ad ammettere la loro collaborazione con i partigiani (…). Dopo essere stati torturati, verso le due di pomeriggio vennero portati fuori dalla caserma e diretti di fronte ad una casa non terminata senza tetto. Lì il criminale Vladković Boris li portò ad uno ad uno all’interno e li uccise con un colpo di pistola; dopodiché i soldati gettarono i corpi dalla finestra, e fuori altri soldati spararono sulle vittime un’altra raffica (…).
3) Luciani Bruno, riconoscimento ricevuto nel 2007.
Dal suo dossier (AJ, fondo 110, busta 231, f. br. 24206):
Il giorno 31 dicembre 1944 gli agenti della polizia di Collotti arrestarono il ventenne Kavčič Bruno di Trieste. All’arresto parteciparono gli agenti Ciarlenco, Luciani, Nussak e Sorenzio. Kavčič Bruno fu portato alla caserma in via Cologna, dove fu interrogato e torturato. Le torture durarono fino al 15 aprile 1945, quando venne trasportato al Coroneo dove venne interrogato e torturato dalle SS. Il giorno 28 aprile 1945 venne trasportato a Opicina dove venne fucilato dalle SS (…).
Il giorno 27 novembre 1944 venne arrestata Varich Wilma dagli agenti Ciarlenco e Luciani, membri della polizia di Collotti, e venne portata nel carcere in via Bellosguardo. Qui venne interrogata. Venne legata al tavolo, picchiata e presa a pugni; questo venne fatto dal brigadiere Ciarlenco. Vedendo i torturatori che non aveva intenzione di dire nulla, cominciarono a bruciarle le mani, le gambe e le guance con l’elettricità. Dopo un’ora fu portata in cella. Il giorno successivo fu trasportata nel carcere presso i Gesuiti. Dopo ottanta giorni fu nuovamente interrogata e torturata nel carcere in via Cologna, poi trasferita al Coroneo e dopo due mesi fu internata in Germania.
Il giorno 26 novembre 1944 la polizia speciale per il Litorale adriatico il cui capo era Collotti, arrestò il funzionario ventenne Battich Ferruccio. L’ordine di arresto, che venne effettuato da tre agenti della sopranominata polizia, fu dato dal brigadiere Ciarlenco. Battich venne portato presso la sede di questa polizia in via Bellosguardo. Qui venne interrogato e picchiato brutalmente dagli agenti Ciarlenco, Codegli e Luciani. Poi venne trasportato nel carcere dei Gesuiti con l’accusa di essere un collaboratore dei partigiani (…).
4) Privileggi Iginio, riconoscimento ricevuto nel 2007.
Dal suo dossier (AJ, fondo 110, busta 214, f. br. 21168):
Un giorno imprecisato del gennaio 1944 i fascisti si recarono nel villaggio di Bujić guidati dal fascista Privileggi Iginio e Kovačič Mario. Qui arrestarono Jelovac Ivan, che venne portato a Parenzo, picchiato e torturato e lasciato senza cibo per otto giorni. Poi fu portato in un bosco e ucciso.
(…)
Il giorno 2 febbraio 1944 arrestarono Pribetić Ivan, che venne portato in carcere, maltrattato e picchiato; venne picchiato in particolare dal fascista Privileggi. Lo stresso giorno si recarono a Nova Vasi e arrestarono Viggintin Petar, che venne portato a Parenzo e ucciso con una mitragliatrice poco distante dall’abitazione di Mate Vlašić. Nel corso di questa esecuzione vennero riconosciuti i fascisti Kovačič Mario e Destilatis Ennio. In quell’occasione diedero fuoco alla casa di Vlašić Mate, e quando Vlašić Petar tentò di spegnere l’incendio, i fascisti lo presero e lo portarono al cimitero, dove venne ucciso con una raffica di mitragliatrice. A quest’esecuzione parteciparono Privileggi Iginio e Ramarro Luigi. Allo stesso modo uccisero sempre a Nova Vasi Brnobić Ivan e sua moglie Vitkorija, Orahovac Antun, Jerovac Mate, Radin Gašpare, Sorčič Bruno (…).
Il criminale sopraindicato è stato liquidato dalle nostre autorità come risulta dal rapporto della Commissione per i crimini di guerra in Istria numero 389.
5) Stefanutti Romeo, riconoscimento ricevuto nel 2006 e nel 2007.
Dal suo dossier (AJ, fondo 110, busta 230, f. br. 24016):
I fascisti di diverse guarnigioni, e in particolare di quella di Oprtalj, commisero nel corso del 1944 nel territorio di Buzet una serie di crimini nei confronti della pacifica popolazione locale, con lo scopo di annientarla e di appropriarsi dei loro beni. La Commissione per i crimini di guerra in Istria ha accertato che in quel periodo critico, il milite Stefanutti Romeo partecipò personalmente ai crimini di seguito descritti (…).
Dalla fine del gennaio 1944 fino alla fine del giugno dello stesso anno, nel territorio di Buzet, senza alcun motivo vennero uccisi i seguenti civili: Grizančić Mate, Grizančić Andjelo (questi venne portato al cimitero nel paese di Salež dove gli vennero cavati gli occhi, tagliate le orecchie, mentre il suo corpo venne martoriato con il coltello; poi fu fucilato), Zonta Miha, Zonta Antun, una certa Ana di Zrenja il cui cognome non si conosce (venne sgozzata), Pruhar Ivan, Mušković Antuna (venne ucciso mentre badava ai suoi tacchini, che vennero poi rubati dai fascisti), Kodelij Antun e Prodan Antun; inoltre, saccheggiarono e incendiarono 14 abitazioni, mentre arrestarono due persone e li mandarono nei campi in Germania (…).
6) Serrentino Vincenzo, riconoscimento ricevuto nel 2007.
Dal suo dossier (AJ, fondo 110, busta 76, f. br. 80):
Nel corso del 1941 venne formato in fretta e furia a Šibenik il Tribunale straordinario, che condannò a morte delle persone senza nemmeno provare la loro colpevolezza.
Tra l’altro, vennero condannati a morte da questo tribunale:
– 13 ottobre 1941 vennero fucilati: Junaković Drago Stipin, Lazić Ivan Antin, Vrljević Duško Milošev, Bujas Mate Antin, Višić Blaž Stipin e Belamarić Ante figlio del defunto Vlada, anche se erano del tutto innocenti.
– Il 29 ottobre 1941 vennero fucilati a Vodice, nei pressi di Šibenik: Skroza Milivoj Ambrozijev, Antulov Ivan Matin, Kursar Fridrih Enrika, Jurić Ivan Vicin, Belan Šime Ivanov, Udovičić Ante Grgin, Greblja Petar Krstin, Mijat Ante figlio del defunto Luka, Mijat Cvitko Blažev, Skroza Jozo Rokov, Skroza del defunto Toma, Skroza Štire figlio del defunto Duje, anche se non avevano commesso nulla per cui poter essere condannati a morte.
Come giudice responsabile di aver emesso tali sentenze di morte ingiuste, Serrentino Vincenzo è responsabile di crimini commessi da parte dell’occupante nei confronti dei nostri popoli.
Leggendo questi estratti, viene da chiedersi come mai sia stata possibile una così grave defaillance.
Volendo essere comprensivi, potremmo rispondere che i membri della commissione che stabilisce a chi assegnare le medaglie non abbiano preso in considerazione una tale eventualità; il che la direbbe comunque tutta sulla serietà del lavoro che svolgono. D’altra parte, se teniamo presente la difficoltà di consegnare medaglie a civili realmente morti nelle foibe e la facilità con cui vengono assegnate a fascisti veri e propri, forse dovremmo ripensare bene a tutta la Giornata del Ricordo.
Ci riserviamo di aggiornare l’elenco dei criminali di guerra che hanno ricevuto il riconoscimento dalla Repubblica italiana qualora emergessero nuovi nominativi.
I RICONOSCIMENTI PER GLI INFOIBATI AI CRIMINALI DI GUERRA ITALIANI
Come si manipola la storia attraverso le immagini: il #GiornodelRicordo e i falsi fotografici sulle #foibe
di Piero Purini*
con la collaborazione del gruppo di lavoro «Nicoletta Bourbaki»
1. UN GIORNO A DANE, SLOVENIA, 31 LUGLIO 1942
Guardate questa foto:
Un plotone d’esecuzione in divisa, cinque fucilati di schiena che attendono la scarica.
Guardate quest’immagine:
E quest’altra:
E questa ancora:
Ce ne sono molte altre simili nei manifesti che pubblicizzano iniziative per il Giorno del ricordo.
A questo punto vi sarete convinti: i fucilati, chiaramente, sono italiani che vengono uccisi dalle truppe jugoslave.
La foto viene messa in onda nella trasmissione Porta a porta condotta da Bruno Vespaper la giornata del ricordo del 2012. Ospiti in studio, tra gli altri, gli storici Raoul Pupoe Alessandra Kersevan.
In quella trasmissione però emerge, con enorme disappunto di Bruno Vespa, che la foto non mostra la fucilazione di vittime italiane da parte dei feroci partigiani titini. Tutt’altro. Alessandra Kersevan fa notare che la foto ritrae la fucilazione di cinque ostaggi sloveni da parte delle truppe italiane durante l’occupazione italiana della Slovenia (1941-1943). Bruno Vespa attacca furiosamente la signora Kersevan (non si sa perché altri ospiti vengono definiti professore o professoressa, titolo che spetterebbe di diritto anche a questa ricercatrice storica); Raoul Pupo interviene sulla questione solo quando viene interpellato direttamente dalla Kersevan e conferma che il contenuto dell’immagine è completamente opposto a quanto viene fatto passare nella trasmissione. Quando è costretto a prendere atto che la foto ritrae effettivamente ostaggi sloveni fucilati da un plotone d’esecuzione italiano, il conduttore si giustifica dicendo che l’immagine è tratta da un libro sloveno.
Bruno Vespa non porgerà mai le proprie scuse alla professoressa Kersevan per il madornale errore.
In effetti la fotografia è stata scattata nel villaggio di Dane, nella Loška Dolina, a sudest di Lubiana. Si sa anche il giorno in cui la foto fu scattata, il 31 luglio 1942, e addirittura i nomi dei fucilati:
Franc Žnidaršič,
Janez Kranjc,
Franc Škerbec,
Feliks Žnidaršič,
Edvard Škerbec.
Come nella Wehrmacht e nelle SS, anche nell’esercito italiano si documentavano stragi e crimini, salvo tenerli nascosti negli anni successivi per confermare il (finto) cliché del «bono soldato italiano».
Il rullino di cui la fotografia faceva parte viene abbandonato dalle truppe italiane dopo l’8 settembre 1943 e finisce nelle mani dei partigiani. Nel maggio del 1946 la foto (insieme ad altro materiale che testimonia la Lotta di liberazione jugoslava ed i crimini di guerra italiani e tedeschi in Slovenia) viene pubblicata a Lubiana nel libro Mučeniška pot k svobodi («La travagliata strada verso la libertà»).
Nello stesso anno, sempre a Lubiana, viene pubblicato – stavolta in italiano – un altro libro sullo stesso tema, Ventinove mesi di occupazione italiana nella provincia di Lubiana: considerazioni e documenti, a cura di Giuseppe Piemontese.
Da quest’ultimo libro è tratta questa pagina, che riporta la foto con la didascalia: «…e un ufficiale si diletta a fotografare…»
…che è la continuazione del commento ad un foto pubblicata accanto: «Prima di venir fucilati devono scavarsi la fossa». Non è la stessa fucilazione ma sono gli stessi fucilatori, è un’esecuzione di ostaggi nella vicina Zavrh pri Cerknici, avvenuta quattro giorni prima.
La stessa immagine però è passata sul Tg3 riferita alle vittime delle foibe:
In un’altra pubblicazione – Tone Ferenc, La provincia “italiana” di Lubiana. Documenti 1941-1942, Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, Udine 1994 – si trova la didascalia con tutte le informazioni necessarie a identificare la fucilazione di Dane:
Eppure non basta: si continuano a presentare i cinque ostaggi sloveni della foto come italiani vittime degli slavocomunisti.
In alcuni casi l’uso della foto nei manifesti della Giornata del ricordo scatena reazioni internazionali: a protestare contro il clamoroso errore (ammesso e non concesso che non si tratti di una bufala voluta) è addirittura il Ministero degli esteri sloveno che segnala al Comune di Bastia Umbra l’uso improprio della fonte. Altre volte lettere giungono da storici indipendenti come Alessandra Kersevan, Claudia Cernigoi e Sandi Volk. Le reazioni sono spesso di scuse (con la conseguente rimozione del materiale iconografico da siti on line), ma in alcuni casi – quali quella dell’assessore alla cultura di Bastia Umbra Rosella Aristei – si procede ad un’improbabile giustificazione dell’uso della foto come denuncia simbolica della violenza, esecrabile in tutte le sue varie forme.
La vicenda della foto di Dane ha il suo apice in una lettera di protesta spedita direttamente al presidente Napolitano da parte di Miro Mlinar, Presidente dell’Associazione dei combattenti per i valori della lotta di liberazione nazionale di Cerknica (Slovenia), offeso dal fatto che l’immagine fosse stata addirittura pubblicata impropriamente sul sito del Ministero degli interni italiano. Purtroppo non abbiamo lo screenshot del sito del Ministero, tuttavia la lettera di Mlinar è reperibile qui.
Il Presidente dell’Associazione dei combattenti slovena sostiene che è stata proprio la pubblicazione sul sito ufficiale italiano a giustificare in seguito l’uso scorretto della foto, facendola diventare uno strumento improprio per aizzare l’odio verso il popolo sloveno. Per questo suggerisce a Napolitano di spostare la data del Giorno del ricordo al 10 giugno, «data del vero inizio delle tragedie del popolo italiano.» A quanto mi risulta il primo presidente proveniente dal partito italiano che più aveva contribuito alla Resistenza non si è nemmeno degnato di rispondere a Mlinar.
Per la vicenda delle false attribuzioni della foto di Dane rimando a questo dossier e ringrazio Ivan Serra e lo staff del sito diecifebbraio.info per la minuziosa ricostruzione della bufala e delle sue implicazioni internazionali.
In qualche modo, tuttavia, la vicenda dell’abuso della foto di Dane arriva fino ai media nazionali. Finalmente, pochi giorni fa, se ne occupa un articolo sull’Espresso, grazie ad un post pubblicato proprio qui su Giap:
Si spera che con questo passaggio su un periodico a diffusione nazionale finalmenteFranc Žnidaršič, Janez Kranjc, Franc Škerbec, Feliks Žnidaršič ed Edvard Škerbecpossano avere la giustizia e la collocazione storica che si meritano.
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2. FUCILATI MONTENEGRINI SPACCIATI PER «VITTIME DELLE FOIBE»
Le bufale legate alla giornata del ricordo non si limitano alla fucilazione degli ostaggi di Dane. Ecco qui un altro esempio:
ed ancora un altro:
Nell’intento di chi ha utilizzato queste foto, la prima rappresenterebbe un gruppo di italiani uccisi dai titini e la seconda un partigiano che prende a calci un povero prigioniero italiano.
Anche in questo caso invece la realtà è un’altra (già le divise dei due militari della seconda immagine non lasciano dubbi che si tratti di un soldato e di un ufficiale italiano): entrambe le foto fanno parte dello stesso rullino e documentano la fucilazione di ostaggi e partigiani in Montenegro, occupato dall’esercito italiano dall’aprile del 1941 all’8 settembre 1943. Ne esiste la sequenza completa (sul sito criminidiguerra.it ), qui le tratteremo una per una perché ogni fotogramma contiene particolari che smentiscono si tratti di italiani.
I prigionieri montenegrini sono presi a calci da un soldato italiano riconoscibile dalla divisa mentre vengono portati sul luogo della fucilazione:
Poi i prigionieri sono schierati davanti al plotone d’esecuzione. Che non si tratti di italiani è intuibile dal copricapo del terzo e del quinto condannato da sinistra che indossano la tipica berretta montenegrina. Quattro ostaggi alzano il pugno chiuso, evidente testimonianza che – almeno quei quattro – sono partigiani comunisti. L’uomo al centro della foto, accanto a quello che mostra il pugno, indossa il berretto partigiano, la cosiddetta “titovka”.
Parte la scarica (italiana)…
Gli ostaggi sono morti. E’ la stessa foto che illustra la notizia del Giorno del ricordo a Cernobbio, ma ora sappiamo che sono vittime montenegrine degli italiani e non italiani vittime degli jugoslavi.
L’ufficiale italiano, la cui mano si intravede in alto a sinistra, spara il colpo di grazia ai fucilati. Anche in questa foto c’è un particolare che conferma il fatto che le vittime non sono italiane: uno dei morti calza le tipiche babbucce serbo-montenegrine, le opanke.
L’ultima foto del rullino:
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3. NUMERO D’INVENTARIO 8318
Altra foto che non rappresenta vittime delle foibe, ma che viene fatta passare come tale:
Fin da subito di questa foto non mi hanno convinto diversi particolari: il paesaggio non è per nulla istriano o carsico, le divise non sembrano assolutamente divise “titine” o anche di partigiani non inquadrati in formazioni regolari, i cadaveri sono troppi e troppo “freschi” per essere stati estratti da una foiba. Nel caso in cui non si trattasse di vittime estratte da una foiba ma di un’esecuzione sommaria da parte degli jugoslavi, colpisce invece il fatto che i morti sembrano essere tutti maschi e che non ci sia tra loro nemmeno una persona in divisa (dal momento che, nella vulgata fascista e neofascista sulle foibe, nel 1943 sarebbero stati eliminati tutti coloro che potevano essere considerati funzionari dello Stato italiano, compresi dunque militari e pure donne).
Dopo innumerevoli supposizioni (Katyn? Stragi di ebrei nel Baltico?), grazie alla solerzia di un giapster, Tuco, troviamo l’originale. Si trova nell’archivio dell’Armata Popolare Jugoslava a Belgrado. Eccola:
Che si tratti di una stampa dal negativo è chiaro dalla pulizia e dalla definizione dell’immagine: in nessuno dei siti italiani che riportano la foto, questa è così nitida e i dettagli così visibili. Ma ciò che è più interessante è quel che c’è scritto dietro. Il sito, infatti, riporta anche il retro della foto, dove ogni archivio fotografico segnala le note e la descrizione relativa all’immagine.
La traduzione è la seguente: «Numero d’inventario 8318. Crimine degli italiani in Slovenia. Negativo siglato A-789/8. Originale: Museo dell’JNA a Belgrado»
Dunque non si tratta, nemmeno in questo caso, di vittime delle foibe, ma piuttosto del contrario: vittime slovene uccise dall’esercito italiano.
Ciò che è impressionante è la velocità con cui su internet un’immagine diventa virale (e dunque “vera”): cercando nel web il 10 febbraio alle otto di sera, quest’immagine – secondo le mie modeste conoscenze informatiche – appariva sette volte, tutte e sette associata al descrittore “foibe”. Due giorni dopo (giovedì 12 verso le 23.00) la foto era reperibile su ben 103 siti, a dimostrazione dell’incredibile potenza moltiplicativa di Internet, pur trattandosi di una bufala.
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4. SI PARLA DEL «DRAMMA DEGLI INFOIBATI» E SI MOSTRA UN UFFICIALE DELLE SS MA FORSE LA STORIA E’ ANCORA PIU’ ASSURDA
Su internet si trova anche la seguente immagine:
Immagine generalmente associata al massacro degli ufficiali polacchi a Katyn, alla liquidazione degli Shtetl in Polonia ed Ucraina, alle uccisioni delle foibe, addirittura ad esecuzioni da parte austro-ungarica di prigionieri catturati durante la disfatta di Caporetto nel 1917. Non ho trovato un archetipo, ma escludo tanto Katyn quanto le foibe in quanto non esistono testimonianze fotografiche delle esecuzioni ed in entrambi i casi non avrebbe avuto senso spogliare le vittime. L’attribuzione più plausibile mi sembra quella dell’eliminazione di prigionieri (russi?) in qualche villaggio dell’est o in un campo di concentramento, vista anche la divisa del boia, che sembra essere delle SS-Totenkopfverbände (Testa di morto), reparto adibito alla custodia dei campi nazisti.
[N.d.R. Su questa foto, vedi la discussione qui sotto con intervento di Nicoletta Bourbaki.]
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5. BRUNO VESPA CI RICASCA: I PARTIGIANI IMPICCATI A PREMARIACCO
Torniamo ora a Bruno Vespa. Oltre a non essersi mai scusato ufficialmente con Alessandra Kersevan per l’errore (?) dei fucilati di Dane, nella trasmissione dedicata alla Giornata del ricordo di quest’anno (2015), mentre sta parlando di «esecuzioni sommarie a Trieste», manda in onda questa foto:
Chiaramente lo spettatore ignaro viene indotto a pensare che si tratti di italiani impiccati dai partigiani titini. Invece non è così: come nel caso di Dane, Vespa mostra in un contesto un’immagine che è esattamente l’opposto. Si tratta infatti di partigiani friulani (più uno goriziano ed uno sloveno) impiccati a Premariacco in Friuli il 29 maggio del 1944. Anche i nomi delle vittime di questa strage sono conosciuti:
Sergio Buligan, 18 anni;
Luigi Cecutto, 19 anni;
Vinicio Comuzzo, 18 anni;
Angelo Del Degan, 18 anni;
Livio Domini, 18 anni;
Stefano Domini, 19 anni;
Alessio Feruglio, 19 anni;
Aniceto Feruglio, 17 anni;
Pietro Feruglio, 18 anni;
Ardo Martelossi, 19 anni;
Diego Mesaglio, 20 anni;
Mario Noacco, 20 anni;
Mario Paolini, 18 anni,
tutti di Feletto Umberto.
Inoltre:
Ezio Baldassi di San Giovanni al Natisone, 16 anni;
Guido Beltrame di Manzano, 60 anni;
Sergio Torossi di Corno di Rosazzo, 17 anni;
Antonio Ceccon di Dogna, 19 anni;
Luigi Cerno di Taipana, 21 anni;
Bruno Clocchiatti di Corno di Rosazzo, 17 anni;
Oreste Cotterli di Udine, 41 anni;
Agostino Fattorini di Reana del Rojale, 24 anni;
Dionisio Tauro di Chions, 41 anni;
Guerrino Zannier di Clauzetto, 25 anni;
Mario Pontarini o Pontoni;
Luigi Bon di Gorizia, 35 anni;
Jože Brunič di Novo Mesto.
Ecco la foto non deturpata dal logo della trasmissione di Vespa:
Dal momento che in contemporanea ci fu un’esecuzione collettiva anche a San Giovanni al Natisone e non è perfettamente chiaro quali dei partigiani elencati sopra siano stati uccisi a Premariacco e quali a San Giovanni, pubblichiamo qui di seguito anche la foto dei caduti per la libertà di San Giovanni al Natisone, sperando in questo modo di evitare preventivamente che si insulti anche la loro memoria (anche considerando che l’Anpi di Udine, pochi giorni dopo la bufala di Bruno Vespa, ha tolto dal proprio sito foto e riferimenti ai martiri del 29 maggio. Speriamo si tratti di un caso.)
[N.d.R. Nei commenti a questo post viene spiegato l’arcano: «il sito dell’ANPI di Udine ha cambiato non solo server, ma anche piattaforma (da Drupal a WordPress); in ragione di ciò tutti i link interni devono essere editati a mano.»]
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6. CHE C’ENTRA SREBRENICA CON LE FOIBE?
C’è poi l’articolo de «Il Piccolo» di Trieste che sarebbe esilarante se non trattasse di un argomento, anzi due, così macabro e doloroso.
Il sottotitolo della foto reca la dicitura: «L’esumazione di una parte dei cadaveri rinvenuti in una foiba». Peccato che la foto sia a colori, gli esumatori indossino jeans e sia evidente come l’immagine sia di decenni più recente. Facendo una rapida ricerca su internet si trova l’originale: è una fossa comune nel villaggio di Kamenica in Bosnia, nel Cantone di Tuzla, in cui sono stati sepolti musulmani bosniaci dopo la deportazione da Srebrenica.
L’errore è così grossolano che il giornale nel giro di poche ore sostituisce la foto con questa (che si riferisce effettivamente al recupero di corpi dalla foiba di Vines, 1943):
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7. LA «VERA STORIA» CON COPERTINA FALSA
Passiamo poi ad uno dei taroccamenti più evidenti dell’intera vicenda “foibe”, che richiama alcuni dei luoghi comuni più triti sulla bestialità dei partigiani, la sanguinarietà truculenta e la partecipazione delle partigiane (le terribili “drugarice”) alle azioni più violente. Si tratta della copertina del libro Una grande tragedia dimenticata. La vera storia delle foibe, di Giuseppina Mellace, edito da Newton Compton.
Nella copertina si vede un trio (ad occhio: un partigiano e due partigiane) nell’atto di sgozzare una vittima (presumibilmente un povero italiano). Anche qui però il taroccamento è palese. La foto originale infatti è questa:
Anche in questo caso si assiste ad un totale ribaltamento del senso dell’immagine. I carnefici della foto infatti sono una Crna trojka (“Terzetto Nero”), unità četniche, cioè appartenenti all’esercito nazionalista serbo. Si trattava di una sorta di tribunale volante che aveva il compito di eliminare collaborazionisti dell’occupatore. Con l’evolversi della guerra e con l’avvicinamento di Draža Mihailović ai tedeschi, le Crne trojke si dedicarono sempre più all’esecuzione sommaria di partigiani comunisti, di simpatizzanti del movimento partigiano e dei loro familiari. Che si tratti di četnici e non di partigiani è facilmente deducibile dall’abbigliamento: anziché la bustina partigiana (la cosiddetta titovka, già citata nel caso dei fucilati montenegrini), gli individui fotografati sul libro della Mellace hanno in testa una šajkača, il tipico copricapo serbo, utilizzato dai nazionalisti serbi.
Qui di seguito la differenza tra una titovka (che peraltro è sempre ornata da una stella rossa) e una šajkača (che solitamente ha in fronte uno scudo con l’aquila serba, decisamente più grande, come si può notare dal copricapo del četniko in piedi al centro della foto).
Il fatto poi che siano četnici esclude che le due persone in piedi siano donne: è noto che i nazionalisti serbi portavano i capelli lunghi alle spalle.
Inoltre che la vittima non sia un italiano è nuovamente intuibile dalle calzature, che sono – come nel caso di alcuni dei fucilati del Montenegro – opanke, cioè le babbucce tipiche della Serbia e del Montenegro.
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8. MORTI NEI LAGER NAZISTI E FASCISTI SPACCIATI PER… INDOVINATE COSA?
Per taroccare le immagini relative alla Giornata del ricordo non si è disdegnato di utilizzare anche i campi di concentramento e sterminio nazisti.
Il Comune di Brisighella (ma a grandi linee mi pare che l’utilizzo della foto sia più diffuso) commemora le foibe con questa foto:
…che in realtà è una foto di cadaveri nel campo di Bergen-Belsen; mentre su alcuni siti e addirittura in un manifesto della Provincia di Foggia appare quest’altra foto di bambini in un campo nazista…
…spacciata – non si capisce bene in che modo – per una foto relativa alle foibe.
Sempre in tema di campi di concentramento ecco un’altra foto clamorosamente sbagliata:
In realtà si tratta di un deportato croato nel campo di concentramento italianodell’isola di Arbe.L’immagine è addirittura sulla copertina di un libro di Alessandra Kersevan:
Ancora una volta le fotografie utilizzate per la Giornata del ricordo girano la verità storica di 180°, presentando le vittime come aguzzini e viceversa.
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9. FRANCESI IN FUGA DA HITLER SPACCIATI PER ESULI ISTRIANI
Non basta, manca l’esodo. Ecco qui una foto che negli ultimi tempi ha girato parecchio su internet: una bambina e la sua famiglia scappano dall’occupazione jugoslava di una città istriana.
Ma ecco la sorpresa:
La didascalia dice: «Bambini fuggono dall’avanzata di Hitler nel 1940». Si tratta di una foto scattata nel giugno del 1940 quando le truppe del Reich invasero la Francia. Dunque sbagliata la collocazione (non Istria, ma Francia), sbagliato l’anno (non 1945-47, ma 1940), sbagliato l’invasore (non Tito, ma Hitler).
La foto si trova addirittura sulla copertina di questo libro di Hanna Diamond, storica e francesista, docente all’Università di Bath in Inghilterra, ma come ben si sa, raramente in Italia si prendono in considerazione gli studi stranieri…
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10. BRIGANTI INFOIBATI
Appare su un sito la seguente foto di infoibati:
Peccato che queste vittime delle foibe siano state uccise circa ottant’anni prima, e non dall’esercito jugoslavo, bensì da quello italiano. Infatti è una delle tante foto che le armate sabaude scattavano ai cadaveri dei briganti appena uccisi, nell’intento di dimostrare la semibestialità delle masse rurali meridionali, di documentarlo con scientificità lombrosiana e di assecondare il gusto morboso dell’epoca. Al di là dell’errore marchiano (ma ci siamo abituati) in questo caso è interessante vedere la genesi dell’errata attribuzione che dimostra la superficialità assoluta con cui molti scelgono la documentazione fotografica da allegare agli articoli. L’immagine, infatti, è evidentemente tratta da quest’altro sito, in cui appaiono tre foto di briganti uccisi, stigmatizzando il fatto che esista la Giornata del ricordo per gli infoibati, ma non per le vittime della lotta al brigantaggio.
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11. DOVEROSE RIFLESSIONI
Colpisce il fatto che, mentre per le foibe manca una documentazione fotografica delle uccisioni e le immagini relative al recupero dei corpi sono abbastanza rare (il che potrebbe essere un ulteriore riscontro che le effettive uccisioni nelle cavità carsiche furono relativamente poche, nell’ordine di grandezza delle centinaia e non delle migliaia), immagini dell’esodo sono invece piuttosto diffuse, soprattutto di quello da Pola, ma in occasione della Giornata del ricordo non si disdegna di adoperarne di fasulle. Perché?
Una parte di responsabilità va sicuramente attribuita al fatto che spesso queste ricorrenze sono organizzate (o pubblicizzate graficamente) da persone senza una sufficiente preparazione storica, quando non del tutto estranee all’ambito. Mi pare possibile che le foto vengano selezionate in base all’impatto emotivo che possono suscitare su chi le guarda e dunque non si vada troppo per il sottile. La foto dell’esodo “francese” ha in primo piano un’adolescente dall’espressione spaventata, che sicuramente è un elemento di grande presa emotiva e ha l’effetto di rappresentare l’esodo istriano per quello che non è stato: una fuga disordinata da un invasore sanguinario (come invece lo fu quella dei profughi francesi dalla Wehrmacht) invece che un processo migratorio sviluppatosi nell’arco di un decennio abbondante, come i dati statistici permettono di rilevare.
Tuttavia ciò che colpisce di più è il fatto che la maggior parte dei falsi che siamo riusciti a smascherare presenti un totale ribaltamento del contenuto: sono foto che mostrano vittime slovene (o croate o partigiane) uccise dagli italiani, ma vengono presentate come l’opposto, italiani vittime delle violenze slavocomuniste.
Una spiegazione “tecnica” potrebbe essere quella che gli addetti al reperimento del materiale si siano limitati a digitare su Google qualcosa tipo “Jugoslavia”, “crimini” o “vittime” e “italiani” e senza accorgersi siano capitati in siti dove vengono documentate le violenze italiane in Jugoslavia: l’utilizzo di quelle immagini sarebbe dunque semplicemente un errore di superficialità. Se è vero che la cura nella corretta identificazione delle immagini fotografiche è significativamente inferiore a quella riservata ad altre tipologie documentali, nel caso delle immagini delle foibe questa pessima pratica sembra quasi essere la norma.
Non mi sento però di escludere che questa totale inversione sia invece dolosa: che si tratti di un atto volontario nato proprio per instillare on line confusione e il dubbio che le foto delle vittime della resistenza siano effettivamente tali (e rendere questo dubbio virale attraverso l’incredibile forza di replica di internet), o forse più semplicemente per provocare, offendere e screditare la memoria della Lotta di liberazione jugoslava.
Un altro aspetto che salta agli occhi ricercando in questo campo è la carenza di immagini testimonianti la repressione violenta degli italiani ad opera dell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo, se confrontate alle foto esistenti di violenze italiane in Jugoslavia, decisamente più numerose e dettagliate. D’altra parte ciò è fisiologico: i popoli jugoslavi subirono un’invasione che provocò un numero enorme di vittime. La Jugoslavia ebbe un milione di morti su una popolazione di quindici milioni (cfr. John Keegan, Atlas of the Second World War); nella provincia di Lubiana vi furono 30.299 vittime su una popolazione totale di 336.300 abitanti (9% degli abitanti). Nella Venezia Giulia, invece, il numero delle vittime “italiane” dell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo arriva a poche migliaia (contando anche coloro che morirono in prigionia di stenti e malnutrizione, cosa che accadeva anche nei campi di prigionia angloamericani), tra cui alcune centinaia di “infoibati”. Non lo dico io ma il rapporto della Commissione storica italo-slovena, che certo non si può accusare di “titoismo”.
A dispetto della risonanza mediatica che viene data alle foibe e alle vicende del confine orientale, si trattò di un episodio minore e periferico in quell’immane catastrofe che fu la seconda guerra mondiale.
L’attribuzione a sé da parte italiana di questo materiale iconografico potrebbe semplicemente mascherare la consapevolezza di non averne o di averne pochissimo e di volersi opportunisticamente appropriare di quello dell’avversario per colmare le proprie lacune, in un’epoca come quella odierna in cui le immagini contano di più dei concetti.
L’idea che alla base di questi errori vi sia un opportunismo di questo tipo viene in qualche modo confermata anche dall’analisi di chi sono gli autori. Se nel caso di singoli utenti di Facebook o di blogger che arricchiscono con immagini i propri commenti, l’errore in buona fede può sicuramente starci; nel caso di giornalisti, di grafici o di impiegati comunali che cercano materiale fotografico per la Giornata del ricordo l’errore mi sembra possibile, ma abbastanza più grave. Del tutto ingiustificabile invece risulta un’attribuzione sbagliata quando si tratta di media a diffusione nazionale e di opinion maker come Bruno Vespa, oppure di istituzioni pubbliche nazionali, come nel caso del sito del Ministero degli interni denunciato da Mlinar. Un ultimo caso in questo senso è stata la foto allegata ai tweet per il 10 febbraio di quest’anno della Camera dei deputati…
…e del presidente della Camera Laura Boldrini:
L’originale di questa foto si trova alla Sezione storia della Biblioteca Nazionale e degli studi di Trieste (Narodna in študijska knjižnica – Odsek za zgodovino). A quanto ne so è stata pubblicata solo una volta, nel libro di Jože Pirjevec Foibe. Una storia d’Italia(Einaudi 2009). La foto completa è questa:
Si noti la didascalia presente sotto la foto.
Non appena alcuni utenti segnalano via tweet la falsificazione, lo staff comunicazione di @montecitorio e @lauraboldrini si affretta a rimuovere la foto da twitter scusandosi per l’errore ma, considerando che quell’immagine è stata pubblicata solo ed esclusivamente con una didascalia che ne spiega con chiarezza il contesto, è difficile pensare che il suo utilizzo per raffigurare le foibe sia dovuto soltanto a un’ingenuità. Ciò che inquieta è che siano le stesse istituzioni dello Stato a prestarsi a questo gioco, ma dal momento che la Giornata del ricordo è diventata uno dei pilastri della creazione di una mitologia collettiva nazionale italiana e della memoria condivisa, non stupisce che il travisamento della realtà storica e delle immagini venga portato avanti anche ad alto livello politico.
Il materiale fotografico è documentazione storica. Dovrebbe essere utilizzato come tale, con rigore e consentendo a chi lo guarda di avere tutte le informazioni che gli permettano di utilizzarlo al meglio: che cosa mostra la foto, dove è stata scattata, quando, da chi, dov’è conservata. Dovrebbe essere uno strumento per capire meglio gli avvenimenti storici, per poter comprendere gli eventi non solo attraverso la lettura, il racconto e la riflessione, ma anche attraverso la vista. L’utilizzo che invece si è fatto del materiale fotografico che abbiamo preso in esame è l’opposto di questo. Le immagini sono state utilizzate (e manipolate) per colpire le emozioni e non la ragione, sono state usate come santini della vittima di turno, come oggetti devozionali, reliquie con le quali esprimere e consolidare la propria fede, sono state manipolate per dimostrare l’esatto opposto di ciò che rappresentano. E, come buona parte delle reliquie, si sono dimostrate false.
A noi il compito di resistere, continuando a segnalare le manipolazioni della storia e a contrastare l’omologazione e il pensiero unico.
#Foibe o #Esodo? «Frequently Asked Questions» per il #GiornodelRicordo
–
[Oggi pubblichiamo un importante testo di Lorenzo Filipaz.
Lorenzo è triestino e figlio di un esule istriano. Dal ramo materno è di ascendenza slovena. Fa parte del gruppo di inchiesta su Wikipedia «Nicoletta Bourbaki». Appassionato delle storie della sua terra di confine, da anni ha intrapreso un percorso di ricerca e autoanalisi sul cosiddetto «Esodo giuliano-dalmata». L’intento è quello di capire cosa sia andato storto, per quali ragioni l’esodo da Istria e Dalmazia sia diventato una narrazione così platealmente assurda e antistorica, e come mai i figli di una terra meticcia siano diventati i pasdaran del nazionalismo.
L’approccio è quello di una seduta psicoanalitica, una sorta di terapia post-traumatica. Terapia in ritardo di sessant’anni, ma più che mai utile agli odierni discendenti di esuli, per disinnescare certi meccanismi difensivi che favoriscono reticenze e strumentalizzazioni.
Qui sotto trovate ventiquattro risposte ad altrettante domande sull’esodo istriano. Domande basate su quell’insieme di stereotipi e omissioni che ci piace chiamare «l’ideologia del Giorno del ricordo». Ventiquattro chiarimenti, uno per ogni ora del 10 febbraio. Diverse fotografie sono “finestre” aperte su interessanti approfondimenti, ma consigliamo di aprirle solo dopo aver letto le FAQ preparate da Lorenzo. Buona lettura. WM]
di Lorenzo Filipaz
«Il vero guaio è che gli sciocchi la violentano, la vita, specie quella altrui, illusi di togliere la complicazione.»
Giulio Angioni, Gabbiani sul Carso
Febbraio: Come ogni anno mi preparo alla valanga di imposture che si accompagna al cosiddetto Giorno del Ricordo. Capi di stato, di governo e di partito di qualsivoglia colore faranno a gara a chi la spara più grossa o a chi intona più forte la solita solfa. Vediamo quest’anno a che altezza arriva l’asta degli infoibati, e se è un’annata buona possiamo contare su un bell’incidente diplomatico.
Per un giorno tutti si riempiranno la bocca di confine orientale per poi dimenticarsene per gli altri 364 giorni. È l’effetto bagnasciuga: un’alternanza che favorisce le panzane più pindariche e taglia le gambe a qualsiasi reale approfondimento. Sulla battigia chiunque può deporre ciò che vuole, tracciare nella sabbia le sparate più inaudite, tanto la risacca cancellerà tutto e la spiaggia sarà pronta all’uso per l’anno successivo.
Non sono mai riuscito ad abituarmi: ogni 10 febbraio una sgradevole sensazione mi corre giù per la schiena. Sarà perché uno dei miei genitori viene da lì, da quell’Istria piccola e povera che spesso si contrae e diventa enorme e ricchissima, sarà perché quel genitore non c’è più, sarà perché vivo a Trieste, città rimasta ferma al ‘54, dove di foibe ed esuli si parla 400 giorni all’anno.
Ma questa celebrazione parla veramente della nostra storia? Questa è la domanda che faccio sempre agli esuli rimasti, che ormai sono perlopiù i figli, quelli emigrati con la famiglia prima di aver raggiunto l’età della ragione. Quelli per cui l’infanzia è stata una baracca in un campo profughi, con i suoi gelidi spifferi di Bora, i giochi e le amicizie con la muleria (= gioventù) di paesi lontani, improvvisamente divenuti vicini. Figli di un popolo bombardato di propaganda nazionale, di italianità millenaria e altre carabattole vuote a sommergere una ben più complessa realtà, dove magari una nonna o un nonno parlava dialetto croato che guardacaso mamma e papà non parlavano più…
Il fatto è che di esuli fin da subito sono stati altri a parlarne, altri hanno deciso quale fosse la loro storia fin da prima di diventare esuli. La ricchezza del meticciato in questa terra mistilingue è stata negata ai suoi abitanti ai quali è stata imposta dall’alto una narrazione unitaria di purezza. Chi ha dissentito o anche solo “diversificato” questa verità ufficiale ha perduto il diritto di rappresentanza, per le associazioni i “dissidenti” cessano di essere “esuli” e persino “istriani” (o giuliano-dalmati). Oggi a parlare sono spesso i nipoti che con la scusa dei drammi familiari giustificano la loro adesione alla destra xenofoba e ultranazionalista, magari ignorando che quello stesso nonno esule a cui ascrivono il loro credo nazionale se ha rischiato di crepare è stato davanti ad un mitra nazista piuttosto che sul ciglio di una foiba “rossa”.
Quando si inizia a parlare di esodo si finisce sempre col parlare di qualcos’altro. QuesteFrequently Asked Questions – cantieri aperti più che risposte definitive – si propongono di neutralizzare quel qualcos’altro, i depistaggi che deviano l’approfondimento e impediscono di affrontare il passato.
Iniziamo a parlare veramente di esodo, come se fossimo tutti sul lettino di uno psicoterapeuta, perché è proprio questo che è mancato alla mia gente: una grande terapia di gruppo per superare il trauma dello sradicamento e la vergogna della profuganza. Una reale guarigione si ottiene però affrontando il proprio passato in maniera matura, analizzandolo nelle adeguate proporzioni, per esempio iniziando a parlare di “esodi”, perché furono diverse ondate da diversi luoghi, in diversi anni e con diverse motivazioni. Ogni esperienza dolorosa è unica nel suo genere, prendere coscienza della peculiarità della propria sofferenza permette poi di empatizzare con il dolore altrui smantellando l’insana idea di essere stati gli unici a soffrire: abbiamo abbandonato case, terre – è vero – molti hanno abbandonato terre in colonato e case in comodato a dirla tutta, ma altrove in Italia ci sono state intere città rase al suolo con centinaia di migliaia di sfollati, oppure interi paesi sono stati cancellati dalla faccia della terra con tutti i suoi abitanti, e non occorre andare a Marzabotto o a Sant’Anna di Stazzema, basta andare poco lontano dall’Istria, a Lipa o a Podhum per esempio.
Prima di ogni cosa dobbiamo ripulire questa storia da quei pensieri ricorrenti nocivi, vecchi e ambigui che parlano di purezza attraverso metafore agricole rimettendo in circolo sotto mentite spoglie vittimarie la religione del blut und boden, sangue e suolo, una retorica che prima ha amputato la nostra identità e poi ci ha trascinato assieme a tutta l’Europa nella mattanza. Oggi non a caso questa religione trova il suo perfetto alveo nella metafora carsica delle foibe, nel mito di una terra le cui viscere traboccherebbero di sangue italiano.
1. Cosa si commemora veramente nel «Giorno del Ricordo»?
La Pace!
Il 10 febbraio 1947 furono firmati i Trattati di Parigi che sancirono la pacificazione dell’Europa. Dal 2004 l’Italia è diventato l’unico paese del continente a commemorare quella data con il lutto al braccio.
La legge 30 marzo 2004 n. 92, con la scusa di ricordare in pratica le vittime della pace, costituisce potenzialmente un vulnus per gli stessi valori espressi dalla Costituzione della Repubblica Italiana, fondata per l’appunto sulla pace oltre che sulla Resistenza e sulla sconfitta del nazifascismo. Peraltro l’ Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), prima promotrice dell’istituzione della Giornata del Ricordo, nel suo statuto (Art. 2) si adoperava per «agevolare il ritorno delle Terre Italiane della Venezia Giulia, del Carnaro e della Dalmazia in seno alla Madrepatria, concorrendo sul piano nazionale al processo di revisione del Trattato di Pace», in netto contrasto con il Trattato di Helsinki del 1975 che sanciva l’inviolabilità delle frontiere europee, principio su cui veniva poi fondata l’OSCE e quindi la Comunità Europea (l’ANVGD ha poi modificato quell’articolo alla chetichella nel novembre 2012, con una clausola sui “rimasti” di cui parleremo in seguito).
Il 10 febbraio si configura quindi come la Giornata nazionale del Revanscismo, dove tutti (specialmente gli alunni delle scuole), sono tenuti a manifestare un po’ di “sano” neoirredentismo di stato in perfetta continuità con il vecchio mito della vittoria mutilata.
2. L’irredentismo non è forse solo un ideale o un’innocua nostalgia?
Gli irredentismi hanno spesso trascinato i propri paesi in disastrose guerre sanguinarie. Con la scusa della difesa di una propria minoranza nazionale oppressa si sono giustificate aggressioni e oppressioni ben peggiori. Dalla Megali Idea greca, ai Sudeti, a Danzica, e ancora Nagorno-Karabakh, Erzegovina, Kosovo… Gli irredentismi e i revanscismi hanno una grande capacità di quiescenza, possono covare per decenni, se foraggiati sono potenzialmente immortali: una riserva sempre disponibile di nazionalismo e odio etnico.
Se si ritiene che questi scenari siano lontani e non inerenti con la nostra celebrazione basti ricordare che il primo firmatario della proposta di legge del giorno del Ricordo, il triestino Roberto Menia, salpò alla volta di Belgrado assieme a Fini e Tremaglia nel 1991 per contrattare con la Serbia di Milosevic la cessione di Istria e Dalmazia in cambio di supporto politico e militare [1], come dire che stava per trascinare l’Italia nel carnaio balcanico. Oltre a ciò associazioni neoirredentistiche fecero una colletta per una forza internazionale composta dal 30% di italiani da mandare in Krajina contro la Croazia [2].
Attenzione a riposare troppo sulle garanzie comunitarie: i nazionalisti percepiscono sempre le compagini statali sovranazionali come provvisorie, si tratti dell’impero Austroungarico, della Jugoslavia o dell’Unione Europea. In attesa della loro caduta essi preparano la resa dei conti. Il moltiplicarsi di partiti nazionalisti e xenofobi nell’attuale scenario europeo dà una piega inquietante a questa prospettiva.
3. Perché la «Giornata della memoria» va bene e il «Giorno del ricordo» no?
La monetizzazione politica della Shoah da parte del sionismo ha sempre colpito il neoirredentismo nostrano, che ha cercato di mutuarne spregiudicatamente i meccanismi di legittimazione. Nel dopoguerra l’unico frasario disponibile per riprodurre il paradigma vittimario era quello dell’olocausto, così si iniziò a parlare di «genocidio delle genti giuliane», facendo inorridire storici come Giovanni Miccolidell’IRSML, che lo definì un «accostamento aberrante» [3].
Poi arrivò la guerra nell’ex-Jugoslavia, il massacro di Srebrenica permise di giocare sullo stereotipo dell’atavica barbarie orientale-balcanica e così un nuovo vocabolo, la “Pulizia etnica” (ma in verità esisteva già “bonifica etnica”, usata storicamente per descrivere la snazionalizzazione della Venezia Giulia operata dal fascismo), soppiantò il genocidio che tuttavia rimase in sordina per poi riemergere proprio nel linguaggio del giorno del Ricordo, strategicamente piazzato due settimane dopo quello della Memoria a scimmiottarne nome e forma.
Lo scopo malcelato è quello di ingenerare confusione – vedasi le «Foibe Ardeatine», tragicomica crasi segnalata da Federico Tenca Montini [4] – tra due episodi incomparabili: da un lato una commemorazione mondiale dal significato universale, dall’altro una commemorazione di impianto nazionale. Uno squilibrio che si manifesta a ogni livello di questo accostamento: emigrazione equiparata a deportazione, epurazioni politiche e rese dei conti equiparate a sterminio e massacri indiscriminati.
Interessante è anche confrontare i significati simbolici dei giorni prescelti dalle due commemorazioni: mentre nella giornata della memoria si celebra la liberazione di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche – la fine del male per gli ebrei – dall’altra parte si celebra la firma del trattato di pace – l’inizio del male secondo una certa narrazione esule – un male che continua e che idealmente soltanto la restituzione delle terre sottratte o dei “beni abbandonati” potrebbe chiudere.
Se proprio si volesse prendere ad esempio la giornata della memoria si dovrebbe indicare una data che celebrasse la fine delle ostilità, magari il 10 novembre, firma delTrattato di Osimo. Nessuna associazione di esuli lo accetterebbe, quella data in zona suscita ancora malumori (riemersi persino in recenti avventure politiche, come MTL) ma se non altro significò la normalizzazione dei rapporti italo-jugoslavi e la fine definitiva delle ostilità fra i due paesi. In realtà il giorno del Ricordo non ricopia quello della memoria, ma ne è un detournement: si ricalcano gli aspetti emotivi ma si perseguono diverse finalità.
4. Dovremmo ritornare a non parlarne, continuando il “silenzio assordante”?
C’è un elastico che lega questi crimini di guerra italiani alle foibe. Nell’immediato dopoguerra si parlò di foibe in maniera isterica e ossessiva, quando la questione di Trieste era sul tavolo e le Nazioni unite chiedevano la consegna dei criminali di guerra italiani. Del Boca, citando Focardi, scrive:
«[…] nel luglio 1945, infine, erano gli stessi Alleati a inoltrare al governo di Roma le liste dei presunti criminali di guerra consegnate da vari paesi (Iugoslavia, Grecia, Albania, Etiopia, Gran Bretagna, Francia, URSS) alla Commissione delle Nazioni Unite. L’Italia, per almeno tre anni, non rispondeva alle ripetute richieste e pressioni, adottando un’ambigua strategia tesa soltanto a prendere tempo. Ma non basta […] il Ministero degli Esteri raccoglieva una contro-documentazione, il cui solo scopo non era quello di “accertare le eventuali responsabilità delle persone accusate dalla Iugoslavia, ma di raccogliere prove sulla loro innocenza e di ribaltare le accuse sui partigiani iugoslavi. […] Il Ministero degli Esteri apprestò anche una controlista di criminali di guerra iugoslavi con circa 200 nominativi. In cima alla lista figurava il Maresciallo Tito […]» [5].
Penso che agli Alleati bastò leggere il primo nome per sentirsi presi per il culo a sufficienza, sicché risposero minacciando di venire a prendere loro stessi i criminali italiani per consegnarli alla Iugoslavia. Solo allora De Gasperi costituì una commissione d’inchiesta presso il Ministero della Guerra. Il problema era che i criminali italiani erano pezzi grossi dell’esercito, non solo fascisti, per cui con vari cavilli si archiviò il tutto senza dar luogo mai a nessun processo. Sempre Del Boca rileva che proprio per il fatto di aver scelto di non consegnare i propri criminali di guerra, il governo italiano ritenne prudente rinunciare a chiedere alla Germania la consegna dei nazisti macchiatisi di crimini in Italia tra il ‘43 ed il ’45 [6]. Guardacaso, contemporaneamente le foibe sparirono dal dibattito pubblico, almeno a livello istituzionale. Si ritornò a far cagnara solo dopo che gli insabbiamenti si erano ben stagionati, a 50 anni dagli eventi bellici.
Insomma prima non se ne parlò per evitare di esporre i propri scheletri ancora freschi nell’armadio, poi se ne parlò per evitare di farli riesumare.
È nell’interesse di noi eredi degli esuli far luce finalmente su quei crimini, poiché una volta svelati anche la nostra storia potrebbe essere narrata liberamente, nella sua interezza, senza dover stare sotto il tallone nazionale delle foibe. L’orrore di Rab, Gonars, Lipa riguarda anche noi poiché colpì i nostri cugini, quelli che parlavano un po’ più stretto.
5. E allora le foibe???
Nel momento in cui si inizia a parlare di foibe si smette di parlare di esodo.
Le foibe vengono aumentate di proporzioni e di peso storico per essere presentate come causa del trasferimento di massa. Una prospettiva sfalsata che rimuove la scelta, poiché l’emigrazione in Italia fu un’opzione, per alcuni più obbligata, per altri automatica e per altri ancora una scelta sofferta ma ponderata. Per questo motivo per anni le associazioni di esuli hanno disprezzato, boicottato e negato il loro riconoscimento ai cosiddetti “italiani rimasti” in Istria: la loro stessa esistenza inceppava la narrazione deterministica foibe-esodo, dimostrando che si poteva rimanere e, nonostante le difficoltà dell’essere una minoranza legata ad un paese politicamente ostile, persino preservare la propria identità linguistica e nazionale.
Per molti esuli rimuovere la propria scelta significò liberarsi dal peso della responsabilità, un sollievo immediato che comportò però la perdita della potestà sul proprio passato di cui divennero prigionieri, siglando un’ipoteca sulla propria storia familiare, sottratta anche ai propri eredi, per essere affidata alle associazioni, ai partiti e al nazionalismo. Io ora, come erede, impugno quell’ipoteca: voglio riappropriarmi della storia della mia famiglia.
6. Ma… l’esodo non fu una fuga dalle foibe?
No.
L’esodo fu un fenomeno che si produsse principalmente in Istria nel dopoguerra, uno stillicidio durato per oltre un decennio, di sicuro non una fuga disordinata. Gli unici a fuggire dall’Istria in tempo di guerra temendo realmente di finire infoibati furono fascisti, militari e persone compromesse con l’apparato statale fascista, la cosiddetta “ondata nera” esauritasi prima del ‘45. Mi rifiuto di includere questa ondata nella stessa categoria dell’esodo del dopoguerra che con il fascismo non ci ebbe niente a che fare. L’altro spostamento di popolazione notevole nel periodo bellico fu quello degli zaratini che però consistette in uno sfollamento oltre l’Adriatico a causa dei bombardamenti aerei angloamericani, ragione per cui la loro inclusione nella categoria dell’esilio è sempre risultato molto dubbia per gli addetti ai lavori [7].
Epurazioni ed emigrazioni furono fenomeni ben distinti cronologicamente. Le “foibe istriane” datano settembre 1943. Nel ‘45 ci furono altre epurazioni diverse nel Carso goriziano, triestino e sloveno ma che non riguardarono l’Istria. La stessa generalizzazione dei due fenomeni in un unico contenitore è tendenziosa.
7. Cosa cambia tra “foibe istriane” e “foibe giuliane”?
Sono due momenti ben distinti, cambiano anche le dinamiche e le pertinenze militari, gli obiettivi e gli attori. Soprattutto, sono diversi i contesti: nel ‘45, a guerra finita, le epurazioni – con gli annessi eccessi – furono in linea con fenomeni del tutto analoghi che bene o male si verificarono negli altri paesi liberati in Europa. Le foibe del ’43 furono invece un caso inseribile nella straordinaria situazione storica generata dall’Armistizio di Cassibile e dall’improvviso vuoto di potere che esso generò nel bel mezzo della guerra, causa di eccidi anche molto gravi come quello di Cefalonia. In Istria questa situazione particolare si concretizzò nell’immediata presa di potere del movimento partigiano croato, l’unico assieme a quello sloveno ad essere attivo all’epoca sul territorio amministrato dall’Italia. Il potere popolare instauratosi sfuggì allo stesso controllo partigiano il quale a stento riuscì a imporre parvenze di processi e disciplina a quella che fu più che altro l’esplosione della rabbia popolare covata in un ventennio di violenze, portate poi al parossismo con l’invasione della Jugoslavia. Questa situazione si tradusse in veri e propri linciaggi, condotti in taluni casi da criminali comuni infiltrati, alcuni dei quali furono poi identificati e condannati a morte dalla stessa giustizia partigiana [8]. Oltre a ciò, molti prigionieri militari furono liquidati di fronte all’impossibilità di mantenerne la custodia all’approssimarsi della Wehrmacht [9].
Questa esplosione di violenza, che indubbiamente in alcuni casi assunse i connotati di una vendetta anche su base nazionale, pur essendo piuttosto contenuta nei numeri e nella durata (200-500 vittime in 20 giorni), ebbe un forte impatto sugli istriani. Per la parte “italofona” della popolazione rappresentò l’inizio di quella guerra che invece per la parte “slavofona” era già iniziata da ben due anni, mostrandosi con il volto della pulizia etnica portata avanti dall’esercito italiano mediante massacri indiscriminati e deportazioni in campi di concentramento di interi villaggi, comprese donne, vecchi e bambini.
Lo shock prodotto dalle foibe istriane fu amplificato e sfruttato dai nazifascisti non appena ripresero il controllo della zona. Essi diedero ampio risalto al fenomeno attraverso stampa ed esposizioni pubbliche corredate di immagini truculente dei cadaveri semi-decomposti [10]. Lo scopo principale era chiaramente togliere il supporto popolare ai partigiani jugoslavi, ma un altro scopo non meno importante fu quello di distrarre la popolazione dalle rappresaglie che la Wehrmacht scatenò non appena riprese il controllo dell’Istria nell’ottobre 1943, provocando circa 5.000 morti in una settimana [11].
8. Ma… non furono infoibati decine di migliaia di italiani?
In Istria furono recuperati poco più di 200 corpi. Tale numero può essere ragionevolmente esteso fino a una cifra di 500-700 persone. Un numero di corpi di poco superiore fu estratto da cavità e fosse del Carso goriziano, triestino e sloveno nel ’45. [12]
9. Il numero è così importante?
Stimare le vittime in decine di migliaia serve a sostenere il falso storico della pulizia etnica [13], riportare le vittime di quella stagione all’ordine delle centinaia di unità riconduce il fenomeno alle epurazioni che si verificarono nel resto d’Europa (laddove il revanscismo ne vorrebbe fare un unicum storico). Per esempio in Francia nella cosiddetta Épuration légale furono eseguite quasi 800 condanne a morte, ma ne furono comminate più di 6.700 [14], dopodiché alcuni autori parlano di 9.000 esecuzioni sommarie [15]. Nella sola Emilia Romagna si ebbero 2.000 epurazioni, a Torino più di 1.000 [16].
10. Ma, aldilà del numero, in Istria non furono infoibati «solo perché italiani»?
Se si guarda il quadro dell’intera Jugoslavia le vittime di nazionalità italiana furono una minima parte rispetto a quelle collaborazioniste jugoslave [17]. In secondo luogo come già detto la definizione etnica nell’Istria “bonificata” era alquanto problematica. Per fare alcuni esempi: l’eroe della resistenza croata Joakim Rakovac, ucciso dai nazisti nel ‘45 e considerato infoibatore dalla vulgata neoirredentista, all’anagrafe italiana era registrato come Gioacchino Racozzi [18)]. Alcuni autori attribuirono la responsabilità delle foibe, tra gli altri, a Giusto Massarotto e Benito Turcinovich, chiaramente italiani[19]. Per contro il “Padre” degli esuli, Flaminio Rocchi, nasce come Anton Sokolic. Ciò fa capire come la nazionalità in quei luoghi fosse spesso subordinata ad una precisa scelta, in molti casi politica.
11. Gli istriani italofoni erano dunque tutti fascisti?
Certo che no, anzi, molti italofoni di Rovigno o della val d’Arsa – zone operaie – erano persino inossidabili comunisti e più in generale l’Istria vantava una radicata tradizione socialista. Altrettanto certo è che il fascismo ebbe una certa predilezione per questa regione e vi pestò più forte che altrove, prima coi manganelli e le taniche di benzina, scatenando in prossimità del confine orientale una violentissima ondata di squadrismo che precedette quella nazionale di qualche anno [20], e poi anche con le scuole e i registri anagrafici, attuando una bonifica integrale di ogni elemento slavo dal territorio, passando per cognomi, toponomastica, iscrizioni tombali oltre che con uno squadrismo permanente atto a dissuadere l’uso delle lingue “allogene”. Contemporaneamente il regime fabbricò il mito dell’atavica italianità di Istria e Dalmazia, mutuata dalla vecchia propaganda irredentista/imperialista dell’Italia liberale combinata all’epopea mussoliniana della romanità imperiale. Soprattutto a Zara il regime martellò molto sui cittadini rappresentandoli come sentinelle della patria nel barbaro mare slavo. Le motivazioni di questo battage sono spiegate qui: la Venezia Giulia (regione in cui all’epoca si faceva rientrare l’Istria) e l’enclave zaratina costituivano la porta di accesso al sogno imperialista italiano sul Mediterraneo orientale, i suoi abitanti nei programmi del duce ne sarebbero dovuti diventare i giannizzeri più fidati.
Si è dibattuto anche troppo sul legame tra bonifica etnica e rivalse nazionali slovene e croate contro gli italiani, ma non si è invece riflettuto abbastanza sugli effetti devastanti che questa bonifica, senza pari nel resto d’Italia (eccetto forse nell’Alto Adige/Südtirol), operò nel lungo termine su quella generazione di istriani, fiumani e zaratini che la assorbirono attraverso le scuole del ventennio, guardacaso proprio a quella generazione appartennero coloro che poi a guerra finita si rifiutarono di vivere sotto un’amministrazione slava, scegliendo l’esodo come «plebiscito d’italianità». Quando oggi chiedi ad alcuni dei pochi superstiti di quella generazione di raccontarti la loro storia familiare, per prima cosa attaccano con la favola della romanità dell’Istria, della sua millenaria purezza italiana, in altre parole espongono «un passato ricreato attraverso l’espulsione della differenza», come l’ha felicemente definito l’antropologo Stefano Pontiggia [21]. Ovviamente non è la vera storia dell’Istria quella che ti stanno raccontando, spesso smentita dal loro stesso cognome, ma piuttosto il panorama culturale della loro infanzia, quello della bonifica nazionale, dove le lingue “allogene” erano state messe a tacere con la forza mentre si inculcava nei bambini l’ideologia della romanità littoria, laddove la storia dell’Istria ci restituisce invece il volto di una terra che nei millenni fu soggetta a continue migrazioni in entrata e in uscita. Purtroppo i precetti inculcati nell’infanzia sono i più duri da estirpare ed i loro retaggi si manifestano anche in coloro che da adulti non aderiscono all’ideologia che li ha prodotti.
12. E’ vero che furono epurati anche antifascisti italiani?
Sì, in parte. Ma non si può tacere il fatto che molti presunti antifascisti locali furono piuttosto ambigui. I CLN della zona insorsero all’ultimo minuto all’avvicinarsi delle truppe angloamericane, quasi ad opporsi alla presa di potere da parte dei partigiani jugoslavi più che a neutralizzare i nazifascisti [22]. Almeno il CLN di Trieste ebbe il merito di preservare le strutture portuali e industriali della sua città. Nel caso di Fiume invece il CLN locale non fu nemmeno in grado di organizzare una resistenza simbolica contro i tedeschi che distrussero il porto in tutta tranquillità prima di ritirarsi. Il Comitato divenne realmente attivo solo dopo l’entrata dei primi partigiani jugoslavi in città, in pratica fu un CLN antislavo più che antifascista [23]. Per contro la repressione fu senza dubbio dura, condotta con metodi polizieschi e anche secondo una logica di repressione preventiva verso i potenziali oppositori alla presa di potere jugoslava, chiunque si opponeva ai poteri popolari diventava automaticamente un fascista agli occhi dei partigiani [24]. Ma per contestualizzare adeguatamente il momento storico bisogna sottolineare come molti antifascisti dell’epoca fossero spuntati ex-post e magari con trascorsi non del tutto specchiati. Oltre a ciò vi furono contatti su tutto il Confine Orientale tra fascisti e comitati di liberazione italiani (dai quali erano fuoriusciti i comunisti), al fine di creare un comune fronte antislavo, fatto unico in Europa [25]. Tali accordi non ebbero seguito ma c’è anche da rilevare il fatto che gran parte degli esponenti di questi CLN nel dopoguerra andarono ad ingrossare le fila dell’organizzazione stay behind Gladio [26], di fatto coordinandosi con elementi neofascisti in funzione antislava. In ultimo c’è anche da dire che sebbene non siano mancate esecuzioni molto sbrigative e omicidi sospetti, gran parte dei dissidenti fiumani “spariti” in quel periodo perirono in prigionia a causa di malattie e fame.
13. Che senso ha distinguere gli infoibati dai morti nei campi di prigionia jugoslavi?
L’uso disinvolto del concetto di “foiba” per qualsiasi vittima riconducibile al movimento di liberazione jugoslavo ha una finalità psicologica, serve a produrre l’idea di un’eccezionale barbarie. Quelli che vengono definiti come gli infoibati del dopoguerra, con i quali si fa lievitare il conto fino a 4.000-5.000 vittime [27], in verità morirono in gran parte in prigionia, di stenti e di malattie. Oltretutto si trattò soprattutto di militari e quindi “POW – Prigionieri di guerra” i quali, purtroppo, non se la passarono bene in nessun paese coinvolto nella seconda guerra mondiale (nei campi americani morirono 56.000 POW tedeschi).
Questa realtà, soprattutto la sua triste ordinarietà in quel momento storico, non era tuttavia spendibile in senso politico. Molto più efficace l’immagine di grappoli di centinaia di persone al colpo scaraventate vive negli abissi carsici, per tratteggiare uno scenario mostruoso di decine di migliaia di cadaveri sepolti più o meno in ogni cavità della zona [28] e riconfermare nell’immaginario collettivo lo stereotipo etnico dell’eccezionale sanguinarietà balcanica. Molti storici si sono “arresi” a questa semplificazione accettando di usare il termine “foibe” in senso simbolico ma si deve essere ben consci che questo “trucchetto” stereotipizzante è un derivato della propaganda nazifascista del ‘44 che puntava sulla truculenza e sul conflitto etnico per spezzare la resistenza e convincere le popolazioni a collaborare. A riguardo dell’uso degli stereotipi etnici come arma terroristica di persuasione di massa giova ricordare la “leggenda del cane nero”, fabbricata da un cronista di un giornale collaborazionista di Trieste, Manlio Granbassi [29], il quale riferì di una presunta usanza slava (priva di alcun riscontro etno-antropologico) di gettare la carcassa di un cane nero nella foiba per impedire all’anima dell’infoibato di trovare pace (con molte variazioni sul tema).
Spingere le popolazioni a temersi, odiarsi e darsi alla faida etnica corrispondeva alla più pura ideologia nazionalsocialista, che in questo modo cercava di imporre al mondo il proprio principio di blut und boden [30] – suo obiettivo ultimo “spirituale”. Questo meccanismo purtroppo sopravvisse al nazismo morente e oggi si perpetua, ad esempio nella pubblicistica di stampo nazionalista attraverso la rappresentazione della lotta di liberazione jugoslava cui pure contribuirono diverse brigate garibaldine italiane, come puro “espansionismo slavo”, confondendolo deliberatamente con il nazionalismo grande-serbo dei cetnici o grande-croato degli ustascia che di fatto i partigiani combatterono, sempre allo scopo di infilare di contrabbando il falso storico della pulizia etnica.
14. Non fu espansionismo slavo? E l’annessione dell’Istria e la «corsa per Trieste»come si spiegano?
Considerare una lotta di liberazione di un fronte antifascista perdipiù multietnico come una mera forma di espansionismo non solo è disonesto ma anche sinistro: significa tifare più o meno inconsciamente per l’Asse. Di questa grave implicazione non si accorsero molti esponenti dei CLN locali, si può concedere loro anche il beneficio della buona fede (e qui mi riallaccio ai precetti inculcati nell’infanzia che operano anche contro il proprio credo adulto). Detto questo non si può negare una indubbia ambizione territoriale ai partigiani jugoslavi ma c’è una differenza sostanziale tra l’incorporare obiettivi nazionali al fine di guadagnare il consenso popolare locale ed il perseguire obiettivi imperialistici. Bisogna anche ricordare che l’AVNOJ annoverava anche partigiani di ispirazione non comunista, come tutti i fronti popolari. Per tale ragione esso all’inizio si prefisse come principî da perseguire anche l’inviolabilità della proprietà privata e la difesa della libera iniziativa privata, obiettivi ben poco comunisti.
Diversamente, le truppe collaborazioniste ustascia e cetniche si prefissero obiettivi imperialistici che comportavano la sparizione delle altre etnie all’interno delle aree cui anelavano. Ciò si concretizzò in massacri, stupri etnici, deportazioni e orrori come il lager di Jasenovac [31]. E ad istruire e foraggiare questa gente furono i fascisti italiani prima e i nazisti tedeschi dopo, non bisogna dimenticarlo. I partigiani jugoslavi, se proprio ne avessero condiviso gli stessi principî espansionistici si sarebbero alleati a loro, non li avrebbero combattuti senza quartiere come fecero e c’è anche da dire che cetnici e ustascia non è che deposero le armi nel ’45, ma continuarono una ben poco nota guerra civile in Jugoslavia, armi in pugno, fino al ’47. Dopo di che sparirono per riemergere nel ’91. I massacri in Bosnia, in Slavonia e in Kraijna furono compiuti inneggiando a Draža Mihailović e Ante Pavelić, non di sicuro a Tito o alla Jugoslavia.
15. Ma il regime Jugoslavo non voleva «sbarazzarsi degli italiani»? L’ha ammesso anche Gilas!
Quella di Gilas è una bufala. Il meccanismo attraverso il quale essa si è prodotta e amplificata è spiegato qui. Aldilà del fatto che è stato dimostrato che Gilas non era presente in Istria in quel momento, Kardelj effettivamente fu inviato in loco ma per motivi diametralmente opposti: convincere gli italiani a rimanere.
16. Per quale ragione il regime jugoslavo avrebbe voluto trattenere gli italiani?
Perché l’esodo di massa da Pola e Fiume fu un disastro per la Jugoslavia, sia sul piano economico che politico. Per contro i famigerati CLN “antislavi” d’Istria e Fiume spinsero gli italiani ad andarsene in massa (tramite stampa e propaganda di strada), da un lato con lo specifico scopo di sabotare la Jugoslavia – una specie di sciopero di cittadinanza (un porto vuoto è un porto morto), dall’altro fu una tattica suicida per convincere la commissione alleata a riassegnare quelle terre all’Italia mostrando ad essi una sorta di “plebiscito di fatto” a mezzo emigrazione di massa.
17. Ma l’Italia non aveva interesse a mantenere gli italiani nella Zona B?
Le posizioni iniziali di Italia e Jugoslavia mutarono molto nel tempo.
L’aria cambiò bruscamente nel ‘48. Con la rottura Tito-Stalin la Jugoslavia fu isolata a livello internazionale, la difficile ripresa economica fu bloccata dagli embarghi non dichiarati che Mosca ordinò agli altri paesi cominformisti che circondavano la Jugoslavia. Nel paese si diffuse l’instabilità politica che comportò l’instaurazione di uno stato di polizia paranoico. Tenca Montini citando Dubravka Ugresić l’ha efficacemente definito periodo del “maccartismo jugoslavo” [32], gli anni (1948-1954) furono più o meno gli stessi e le dinamiche pure. A farne le spese, tra i tanti, furono anche le minoranze nazionali che fino allora il regime si era premurato di difendere: gli ungheresi della Vojvodina, gli albanesi del Kosovo e gli italiani d’Istria, furono i più sospettati di cominformismo a causa delle posizioni antijugoslave prese dai rispettivi partiti comunisti nazionali. Oltre a ciò la comunità italiana pagò molto i contrasti internazionali con l’Italia. Ci furono intimidazioni, danneggiamenti e pestaggi in corrispondenza delle elezioni del 1950 e della nota angloamericana dell’8 ottobre 1953[33]. Si trattò di atti teppistici ai quali le autorità non seppero reagire lasciando spesso agli italiani la sensazione di essere lasciati soli. C’è da dire che se i diritti civili in Jugoslavia soffrirono in questo frangente storico, quelli nazionali continuarono ad essere tutelati. Ciononostante molti istriani, anche di lingua slovena e croata, emigrarono in Italia per via del generale clima politico instabile e a causa dell’economia disastrata (specialmente il mondo agricolo che contraddistingueva la zona B dell’Istria ne fu travolto), sfruttando l’opportunità dell’opzione nazionale stabilita dai trattati. Questa ondata di opzioni non fu per niente gradita dall’Italia che ormai non riusciva più a gestire l’afflusso di profughi e soprattutto sperava di mantenere una presenza consistente di italiani nella Zona B al fine di riuscirla a reclamare. Oltretutto questi esuli erano i più “sospetti”, il governo italiano li percepiva come “i meno italiani” e soprattutto sospettava che fossero comunisti cominformisti in fuga. Questa fu una delle ondate più consistenti dell’esodo dopo quello di Pola e fu effettivamente la più sfigata: trattati come fascisti o stalinisti in Jugoslavia e come comunisti in Italia.
18. E quanti furono gli esuli?
Una stima complessiva definitiva è difficile da stabilire poichè furono molti gli esuli che non si registrarono come profughi all’arrivo in Italia e molti furono gli espatri illegali che continuarono fino agli anni ‘60 secondo una logica affine a quella che interessò altri paesi del blocco comunista e anche perché la Jugoslavia, dopo il disgelo con l’URSS, consentì ai propri cittadini di viaggiare liberamente (il passaporto jugoslavo era uno dei più ambiti all’epoca del muro di Berlino, consentendo di transitare sia nei paesi del blocco occidentale che in quelli orientali). La cifra dipende dai limiti cronologici che si vuole dare all’esodo: se si include l’esodo di guerra o gli espatri successivi al ’56 la cifra cambia sensibilmente. Oggi si è propensi a quantificare una quota fra i 200.000 e i 250.000 [34].
19. Perché si sente ripetere la cifra di 350.000?
L’OAPGD (Opera assistenza profughi Giuliani e Dalmati) dapprima rese pubblici i dati di rilascio di 150.000 certificati di profugo; questo numero, poi, tramite criteri statistici molto controversi, arrivò fino a quota 250.000. In maniera del tutto arbitraria Padre Flaminio Rocchi – nato Anton Sokulic – dell’ANVGD fece lievitare la cifra fino a 350.000. Tale cifra, mai giustificata da alcun dato o stima statistica [35], divenne quella di riferimento delle associazioni degli esuli.
20. Ma che siano stati 250.000 o 350.000 cosa cambia?
Non molto, apparentemente. L’ordine di grandezza è all’incirca lo stesso, eppure c’è un significato nascosto. Importante è notare che le associazioni parlano di 350.000 esuli italiani, mentre la somma complessiva degli abitanti dell’Istria ammontava grossomodo a 400.000 e anche gli studi statistici più benevoli stimano un massimo di 185.000 italiani in Istria nel 1941 [36] (abbiamo visto anche come la definizione etnica degli istriani fosse tutt’altro che lineare). Questa cifra non solo nega l’esistenza di una quota di istriani rimasti ma nega anche una presenza storica slava nella regione. In pratica attraverso questa cifra apparentemente tecnica si perpetua quell’ideologia di purezza millenaria di cui già abbiamo discusso.
21. Perché le associazioni degli esuli sarebbero così nazionaliste?
Le associazioni di esuli non sono monolitiche, c’è tutto un arcipelago molto “balcanico”, a proposito di stereotipi: tanti potentati in lotta fra loro, ma tutte le associazioni sono contraddistinte da un loro peculiare modo di intendere il nazionalismo. C’è una lontana e nascosta origine: come già si è detto tra ‘43 e ’45, vi fu una cosiddetta “ondata nera” verso la RSI di elementi compromessi con il regime fascista. Furono costoro i veri e propri esuli a fuggire dall’Istria a causa delle foibe. Si è anche già detto che questi elementi neri fondarono i primi comitati di esuli, finanziati dalla stessa RSI [37]. Molti quadri di detti comitati si riciclarono poi nelle associazioni degli esuli nel dopoguerra (si veda il caso di Oddone Talpo), ne è testimonianza la continuità di contenuti propagandistici che poi tennero in ostaggio la narrazione dell’esodo negli anni a seguire. Da allora “foibe ed esodo” divenne un’endiadi obbligatoria, chiunque non la replicava veniva ostracizzato. Ciò su cui non si è riflettuto molto è che questa endiadi era la precisa impronta di quei primi “esuli” compromessi con il fascismo, mescolatisi poi nel dopoguerra agli esuli veri e propri, imponendo ad essi le loro parole d’ordine e di fatto usandone il dramma per riciclarsi come vittime e fare proselitismo. Sarebbe a dire che l’identificazione tra esuli e fascisti fu fomentata inizialmente proprio dai primi comitati esuli, salvo poi lamentarsene al cambio di stagione politica, imputandola interamente agli “slavo-comunisti”.
22. Quindi gli esuli furono obbligati ad essere nazionalisti?
In molti casi fu un’adesione spontanea e la stessa opzione fu una scelta nazionale, ma a costoro si uniformarono anche coloro che emigrarono per ragioni differenti, ideologiche, economiche o di qualsiasi altro tipo. Furono persuasi con le buone, ma alla bisogna anche con le cattive. L’OAPGD concedeva lo status di profugo a propria discrezione, espungendo dalle proprie liste gli elementi politicamente inaffidabili. Lo status di profugo non era uno scherzo, comportava assistenza, sussidi economici, assegnazione di alloggi e poi precedenze nei concorsi, etc.
Questo meccanismo fu sfruttato anche dal CLN Istria che si sostituì come gruppo dirigente agli ex-repubblichini e voleva orientare politicamente la massa degli esodati verso la DC o altri partiti. Ciò comportò l’esclusione di tutte le altre storie di profuganza non allineate, la moltitudine di vicende familiari complesse fu così uniformata nella cornice nazionalista. Molto spesso però furono gli stessi esuli ad aderire spontaneamente a questa narrazione, primo, per il banale principio che non si sputa nel piatto dove si mangia, in secondo luogo, perché questo tipo di narrazione riempiva gli spazi aperti dal trauma dello sradicamento. Furono molti gli esuli a fuggire dall’Istria a causa di intimidazioni, portate avanti talvolta da teste calde spesso nell’imbarazzo dei locali dirigenti jugoslavi. Le “Foibe” furono un concetto che le associazioni politicizzate fornirono ai propri associati per spiegare queste intimidazioni, come anche le ondate di arresti del paranoico periodo post-‘48 (che abbiamo chiamato del “maccartismo jugoslavo”, noto anche come periodo “dell’Informbiro”).
Così nella memoria ex-post di molti esuli, ma soprattutto nei figli degli esuli, questi episodi drammatici – spiegabili solo attraverso una complicata disamina storica – si trasfigurarono in un racconto lineare dove magari i propri genitori erano riusciti miracolosamente a sfuggire a presunte “liste di infoibamento” (in un’epoca in cui questo genere di epurazioni erano ben che finite, come le ricerche storiche accurate hanno rilevato). “Il martirio delle foibe” rispondeva anche ad una comprensibile necessità di legittimazione che l’esule avvertiva di fronte all’ostilità della popolazione del luogo dove andava a trasferirsi, spesso risentita per i privilegi che egli otteneva, per esempio nelle graduatorie per l’assegnazione di case popolari e nelle liste di collocamento.
23. Ma gli esuli esistono ancora? Quali e quanti soci ormai contano le loro associazioni?
Gli esuli veri e propri stanno scomparendo e invecchiano anche i figli emigrati in tenera età al seguito dei propri genitori. Dopo aver “nazionalizzato” gli esuli e la loro prole, le associazioni si sono adoperate alla “nazionalizzazione” dei nipoti, ormai gli stessi presidenti delle associazioni sono di seconda generazione. Chiaramente “l’entusiasmo” si sta esaurendo e in un certo senso l’istituzione della giornata del Ricordo risponde alla necessità di continuare a perpetuare quell’ideologia nazionale specifica anche dopo la scomparsa dei diretti interessati.
Come si era preannunciato nella prima di queste FAQ, ci sono sviluppi in atto in alcune associazioni come ANVGD, che ha sostituito la clausola revanscista del suo statuto con nuove disposizioni miranti alla collaborazione con la comunità degli italiani rimasti in Istria. In linea di massima mi verrebbe da salutare positivamente questo cambiamento di rotta: dopo averli insultati e accusati di tradimento e “collaborazionismo” coi titini per anni, finalmente si ravvedono. Eppure qualcosa non quadra: i rapporti transfrontalieri, le celebrazioni congiunte e le collaborazioni fra esuli e rimasti si intensificano ma il frasario rimane lo stesso: foibe, 350.000 esuli e tutto l’armamentario neoirredentista. Non solo, queste parole d’ordine le stanno incominciando a ripetere anche i rimasti, pur essendo concetti che negano la loro stessa storia! Come se le associazioni degli esuli spingessero i rimasti a rinnegare le scelte dei propri padri. Un meccanismo terribilmente simile alla spoliazione e all’uniformizzazione cui furono sottoposte più o meno volontariamente le storie degli esuli. A inquietare inoltre è il recente interesse per i rimasti di soggetti non prettamente progressisti come Lega Nazionale e come… Roberto Menia, sì, lui, il braccio destro di Fini – il cerchio di queste FAQ si chiude. Un mese fa ha lanciato una propria formazione politica parlando proprio di rimasti e della necessità di ritornare «a seminare italianità nell’Europa adriatica». Se si tratta di riscoperta delle radici, di tutte le radici ovviamente, non posso che compiacermene, ma «seminare italianità nell’Adriatico», detto da Menia a me fa paura. Il 1991 non è poi così lontano.
24. Cosa leggere per capire l’esodo?
Individuare pubblicazioni adatte è molto arduo, perché la quantità di ciarpame nazionalista, etnicista, culturalista e subdolamente revanscista o irredentista è spropositato rispetto agli studi storici seri e indipendenti, ma per fortuna questi ultimi si stanno moltiplicando. Per iniziare, personalmente consiglio tre testi molto diversi:
Aa.Vv. Storia di un esodo
Il libro “maledetto” dell’IRSML (Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione) è molto invecchiato. Giovanni Miccoli nella prefazione del 1980 esprimeva l’augurio che tale testo potesse essere un’introduzione all’argomento, da sviluppare negli anni a venire. Ma così non fu: il testo non incontrò il favore delle associazioni degli esuli e finì in disgrazia, mai più ristampato. Da allora non è stato scritto niente di altrettanto esaustivo in merito, perché ogni altra pubblicazione si è dovuta confrontare con questa lobby, presentando verità patteggiate con il frame nazionalista.
Piero Purini, Metamorfosi etniche. I cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria
Trent’anni dopo Storia di un esodo, Piero Purini raccoglie il testimone allargando la visuale, l’iniziale periodo 1945-1956 viene ampliato al 1914-1975. Un ingrandimento del diaframma necessario per capire tutti i mutamenti di popolazione della zona e inquadrarvi adeguatamente l’esodo del secondo dopoguerra. Era la tesi di dottorato dell’autore e a tutt’oggi è uno dei testi di riferimento per analizzare i mutamenti demografici sul confine orientale.
#Foibe o #Esodo? «Frequently Asked Questions» per il #GiornodelRicordo
Opinioni / Italiani brutta gente. I crimini di guerra nei Balcani 1940-1943
Per tutto il dopoguerra insabbiamenti e depistaggi governativi hanno rimosso dalla memoria collettiva gli orrori perpetuati all’estero duratne il ventennio, perpetuando “il mito del bravo italiano, sempre vittima e mai agente di violenza”
Pubblichiamo il testo dell’intervento di Antonio Senta al dibattito “La memoria abbandonata” previsto oggi, in occasione della giornata della memoria, al Circolo Berneri di Reggio Emilia
Era l’alba di un calda giornata d’estate del 1942 a Podhum, villaggio nell’entroterra del comune di Jelenje a non troppi chilometri da Rijeka. Fiume, non Rijeka, bisognerebbe dire, perché la città era italiana; per la precisione capoluogo della provincia del Quarnaro, governata dal prefetto Temistocle Testa, camicia nera fra le più convinte. E sanguinarie.
Quel giorno l’esercito italiano, i carabinieri e gli “squadristi emiliani” di Jelenje circondarono il villaggio: tutti insieme formavano la seconda armata, guidata dalla “bestia nera”, il generale Mario Roatta. Alle otto in punto fece irruzione la fanteria motorizzata supportata dai carri armati. Mentre alcuni soldati affiggevano sui muri manifesti firmati da Testa che vietavano alla gente di uscire di casa fino alle dieci della sera, altri soldati e carabinieri penetravano nelle case prelevando tutti, senza distinzione.
Zeljac Matejk, una vecchia di sessantasette anni gravemente malata capì subito quel che sarebbe successo quando sentì calciare la porta: fu percossa e trascinata fuori da casa a forza, poi costretta a camminare verso la campagna. Insieme a lei c’erano altri vecchi, donne e bambini: non avevano nulla con loro, se non l’immagine della truppa che saccheggiava i loro averi, se non la faccia di quei soldati che con i lanciafiamme in spalla davano fuoco alle loro case. Zeljac sentiva i pianti e le imprecazioni sommesse, sovrastate dalle urla dei militari italiani, sentiva soprattutto il terrore aleggiare nell’aria. In serata furono fatti salire sugli autocarri in direzione di Fiume. Da lì furono deportati nei campi di concentramento italiani che facevano del Bel Paese una prigione a cielo aperto.
Ma una sorte ancora peggiore aspettava gli uomini. Furono condotti all’aerodromo militare e venne loro ordinato di sedere per terra. Poi tutt’intorno furono piazzate le mitragliatrici e in quel momento il silenzio si fece totale. Lo ruppe un ufficiale d’aviazione che chiese ad alta voce ai superiori se dovessero essere fucilati anche gli operai impiegati all’aeroporto. Il maggiore Mario Rampioni rispose con tono perentorio: “in seguito ad ordine del prefetto: tutti”!
Fu allora un carabiniere a chiamare ad alta voce i primi nomi. Quattro. Si alzarono in piedi e furono portati duecento metri più in là, ai piedi di un monte. Furono massacrati dalle mitragliatrici di due carri armati. Poi fu la volta di altri quindici nomi. Nomi a cui corrispondevano uomini in carne e ossa. Stessa scena: portati un po’ più in là e poi il rumore, inconfondibile, delle mitragliatrici. Chi ci metteva troppo a esalare l’ultimo respiro veniva finito con i fucili.
Ferdinando Barek era un ragazzo di quindici anni, ma già un uomo per l’esercito italiano. Assistette alla fine dei suoi compagni, poi fu la sua volta, insieme ad altri nove. Poi quella di un altro gruppo, poi un altro ancora, poi…
C’era chi urlava, chi si agitava in ogni modo, chi dava di matto, chi provava a scappare, ma mai ci fu pietà. Alcuni abitanti di Podhum furono costretti sotto la minaccia delle armi a trascinare i propri compagni fino al luogo della fucilazione per poi essere trucidati a loro volta. Nessuna pietà per i vivi, né per i morti. I corpi senza vita venivano derubati degli orologi, dei portamonete, di ogni oggetto di un qualche valore. A mezzogiorno l’artiglieria cominciò a martellare le case del paese: la distruzione fu sistematica.
Alla fine della giornata furono almeno centoventi i fucilati, quasi duecento le famiglie deportate, cinquecento gli edifici dati alle fiamme, più di mille i capi di bestiame sequestrati. Di Podhum, villaggio di millecinquecento abitanti, non era rimasto praticamente più nulla.
Perché tutto questo? L’esercito italiano di occupazione accusava i cittadini di Podhum di essere solidali con chi era salito in montagna o si era dato “alla macchia”, con i partigiani insomma e voleva quindi con il terrore della morte soffocare all’inizio il movimento nazionale di liberazione.
Questo del villaggio di Podhum è solo un caso tra mille. In tutti i Balcani, in Montenegro, Slovenia, Croazia, in Grecia e in Albania, durante i due anni di occupazione dal 1941 al 1943 l’esercito italiano ha compiuto una serie impressionante di crimini di guerra simili a quelli compiuti dalle truppe tedesche in Italia: bombardamenti e incendi di villaggi, esecuzioni indiscriminate di partigiani, deportazione di migliaia di persone in campi di concentramento, istituzione di tribunali speciali, torture, uccisioni di ostaggi, rappresaglie in proporzione di “otto a uno”.
Quella nei Balcani del resto non è che una tappa in un continuo di efferatezze sistematiche che caratterizzano la politica di aggressione fascista. Oggi abbiamo notizia di molte delle atrocità compiute in Etiopia a metà degli anni Trenta, grazie al lavoro degli storici, tra i quali soprattutto Angelo del Boca. Con la benedizione di Pio XI e de la “Civiltà Cattolica” l’esercito italiano fa duecentomila morti tra la popolazione etiope anche per mezzo di gas tossici. Oggi sappiamo quale fu il ruolo dell’esercito italiano nella guerra civile spagnola, sappiamo, tra l’altro, che sono gli aerei italiani a bombardare ripetutamente Barcellona nel 1938. Un filo nero che attraversa gli anni Trenta e arriva fino all’inizio degli anni Quaranta, con l’invasione della Grecia e dei territori dell’ex Jugoslavia.
Oggi che abbiamo a disposizione alcune carte su questi avvenimenti viene fuori non solo che i crimini dell’esercito italiano nei Balcani sono del tutto simili a quelli commessi dai nazifascisti e dalla Wermacht in Italia, ma che essi li precedono cronologicamente, essendo cominciati già tra la fine del 1941 e l’inizio del 1942. Così come per l’utilizzo dei gas tossici e dei campi di concentramento è l’esercito italiano a compiere ancor prima di quello tedesco tutte le atrocità possibili in guerra. È un ulteriore elemento, questo, che smentisce il mito degli “italiani brava gente”, mito in crisi di credibilità ormai, almeno da quando gli storici si sono presi la briga di svelare cosa hanno fatto i nostri connazionali nelle province del cosiddetto “Impero”.
C’è un altro interessante parallelismo con i crimini compiuti da nazistifascisti in Italia: entrambi sono stati negati, rimossi dalla memoria collettiva e fisicamente occultati. È probabilmente noto a tutti cosa si intende per armadio della vergogna. Un armadio di uno scantinato di un tribunale militare con le ante rivolte verso il muro in cui furono occultati per decenni i documenti comprovanti i crimini nazifascisti in Italia. Qualcosa di molto simile è avvenuto per i crimini dell’esercito italiano e delle camicie nere in Jugoslavia: i governi dal dopoguerra a oggi hanno messo in atto tecniche di depistaggio e insabbiamento che si sono servite di fini strategie diplomatiche e di una sorta di cortina culturale che ha creato e rafforzato ad arte il mito del bravo italiano.
Nell’immediato dopoguerra circa 750 militari italiani sono richiesti dalla Jugoslavia, circa 180 dalla Grecia e 140 dall’Albania, perché siano processati per crimini di guerra. Sono tutti accusati di crimini simili a quelli avvenuti nel villaggio di Podhum.
Ma fin dall’8 settembre 1943 una delle preoccupazioni principali degli organi di governo è impedire l’estradizione, rinviando sine die qualsiasi procedimento giudiziario contro i propri soldati. Nel 1948 il governo De Gasperi fa definitivamente propria questa posizione, fino a che nel 1951 la magistratura militare chiude con un nulla di fatto tutte le istruttorie.
Non a caso alcuni storici evidenziano come sia stata proprio la mancanza di una “Norimberga Italiana” a contribuire a perpetuare il mito del bravo italiano, secondo cui l’italiano è sempre vittima e mai agente di violenza.
Anche grazie a questa memoria falsata, le classi dirigenti del nostro Paese si sono scrollate di dosso troppo velocemente il proprio passato fascista. Nel secondo dopoguerra i vertici politici, e ancor più quelli militari e giudiziari, si sono ripuliti dagli orrori del passato per presentarsi come ceto dirigente della nascente democrazia, dichiarandosi d’un tratto antifascisti, anche grazie alla compiacenza dei vertici del Partito Comunista, Togliatti su tutti.
Questi nodi insoluti riemergono in maniera più o meno carsica lungo la storia del dopoguerra fino a oggi, quando ancora una volta il razzismo di stato si è fatto legge: la Turco-Napolitano prima e la Bossi-Fini poi hanno istituzionalizzato le prigioni per migranti, i cosiddetti Centri di Identificazione ed Espulsione, veri e propri lager. Essere clandestino è un reato: gli stranieri sono oggi discriminati forse come mai prima in Italia. Costretti a varcare i confini di notte, e poi a nascondersi di giorno, su di loro il governo fa scatenare le pulsioni xenofobe e le speculazioni economiche di una popolazione sempre più impoverita e, forse, incattivita. Stranieri, rom, poveri: contro queste “categorie” di persone i governi scatenano le proprie crociate in perfetta continuità con il ventennio e con quelle istituzioni e quella cultura fascista che è presente nell’Italia del dopoguerra, decennio dopo decennio in un continuum scalfito solo dai movimenti di liberazione collettiva del lungo ’68, una sorta di parentesi gioiosa in un quadro dalle tinte fosche.
È anche per questo che le forze di polizia e l’esercito italiano sono a tutt’oggi pervase di una cultura sostanzialmente fascista. Gli stessi poliziotti che erano nelle strade di Napoli e di Genova a reprimere le manifestazioni di dieci anni fa sono nelle strade e nelle caserme: e hanno spesso e volentieri una qualche croce celtica, o al collo, o tatuata, o attaccata al muro. Dicono di curare l’ordine pubblico, ma sappiamo che sono solo una minaccia per tutti noi; non passa settimana senza che qualcuno muoia in carcere, in questura, o per un banale controllo stradale. E così l’esercito: gli stessi che attaccavano gli elettrodi ai testicoli dei prigionieri somali nel 1992 sono oggi in Afghanistan, le loro azioni di guerra sono circondate da silenzio e omertà: quando filtra qualche notizia la retorica di chi esporta pace o democrazia si rivela un bluff e stiamo a contare i morti. I soldati italiani morti e soprattutto centinaia di civili morti ammazzati, questa volta afghani, ancora una volta colpevoli probabilmente di dare ospitalità o di essere solidali con chi “si dà alla macchia”.
In questo contesto bisogna inquadrare il revisionismo, che ormai da almeno due decenni pervade non solo la storiografia ma soprattutto il senso comune. Dall’abbraccio tra De Gasperi e Togliatti a quello tra Fini e Violante, sino alle opere di disinformazione di massa degli pseudo storici alla Giampaolo Pansa tirate in centinaia di migliaia, il cui unico scopo è ribaltare la verità accusando i partigiani di essere loro i criminali, e non gli aguzzini di Salò, c’è un unico obiettivo: rimuovere le verità scomode, scrivere una storia a uso e consumo delle classi dirigenti, spalancare le porte al pensiero unico.
Oggi è sempre più necessaria una riflessione critica sul nostro passato, sulle tante falsità su cui si basa la cosiddetta memoria condivisa o pacificazione. L’autoritarismo, il militarismo, l’oppressione costante che lo Stato italiano ha dispiegato contro le classi subalterne da 150 anni a oggi non va taciuto. Questo lavoro culturale non può che andare di pari passo a un’opposizione sociale intransigente nei confronti del massacro sociale cui stiamo assistendo. Abbiamo un estremo bisogno di smascherare le menzogne che ogni giorno ci propinano: le menzogne dei sacrifici necessari per pagare i costi della crisi, così come le menzogne degli “Italiani brava gente”. Lunedì prossimo il Presidente della Repubblica sarà in visita a Bologna. Napolitano incarna alla perfezione la menzogna e l’inganno attraverso cui i governi di ogni colore provano a riscrivere il passato e a tenerci in uno stato di apatia e di obbedienza. Lo conosciamo bene: fedele da sempre al Partito Comunista è oggi il vero artefice del governo dell’ultraliberista Mario Monti. Sono sicuro che lunedì qualcuno proverà a ricordargli tutto ciò, gridandogli in faccia la propria volontà di resistenza alla violenza del potere.
Bibliografia:
sul sito web criminidiguera.it sono consultabili circa 170 documenti sui crimini compiuti dall’esercito italiano nei Balcani. Cfr. anche Filippo Focardi, Lutz Klinkhamer, La Questione dei “criminali di guerra” italiani e una Commissione dimenticata, “Contemporanea”, a. IV, n. 3, Luglio 2001, pp. 497-528; Costantino Di Sante, Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1945), Ombre Corte, Verona, 2005 (prefazione di Filippo Focardi); Gianni Oliva, Si ammazza troppo poco. I crimini italiani di guerra ’40-’43, Mondadori, Milano, 2006; Alessandra Kersevan, Lager italiani, Nutrimenti, Roma, 2008; Davide Conti, L’occupazione italiana dei Balcani, Crimini di guerra e mito della “brava gente”, Odradek, Roma, 2008. Cfr. anche i video Fascist legacy, regia di Ken Kirby, BBC, Londra, 1990; La guerra sporca di Mussolini, regia di Giovanni Donfrancesco, GA&A Productions/Ert, Roma, 2008.
Opinioni / Italiani brutta gente. I crimini di guerra nei Balcani 1940-1943
Alessandra Kersevan, le foibe e la sospensione della democrazia
“Ogni 10 febbraio assistiamo ad una vera e propria sospensione della democrazia, con brutali attacchi verbali, nella direzione di chi, come noi, cerca di riportare il dibattito e il ricordo sui fatti” che hanno determinato le vittime delle foibe, arrivando anche “a criticarci con l’appellativo di negazionisti”. E’ la denuncia che arriva in occasione di una conferenza stampa alla Camera sul giorno del Ricordo indetta dalla deputata di Si Serena Pellegrino, dalla coordinatrice del Gruppo di lavoro Resistenza Storica, Alessandra Kersevan. Per la Kersevan si dovrebbe “studiare e conservare la memoria di tutte queste vicende ma nella parte più lunga e soprattutto precedente, quella che ha visto le gravi violenze italiane e fasciste contro sloveni e croati e contro gli italiani antifascisti”: dati che a giudizio della Kersevan non vengono neppure accennati in occasione delle commemorazioni disattendendo, in questo modo, anche le finalità della legge che ha istituito il giorno del Ricordo. “Si tratta di una disattenzione dovuta non ad ignoranza” attacca la storica che parla di “censure” e denuncia un “uso propagandistico fatto delle foibe come evento unico paragonabile alla Shoah”.
Per la Kersevan la stessa legge che ha istituito il giorno del Ricordo viene disattesa in diversi punti: quello, ad esempio, che conferisce una “insegna metallica” ai congiunti dei soppressi o infoibati e per la quale, da un’analisi dei “medagliati” emerge che per il “70,37% dei casi si trattava di militi della Milizia di Difesa Territoriale, cioè le camice nere dell’Adriatisches Kustenland o altre formazioni al servizio dei nazisti (i tedeschi avevano vietato la leva obbligatoria)” quando la legge esclude chi faceva “volontariamente parte di formazioni non a servizio dell’Italia”. Ma è soprattutto la data del 10 febbraio che, dice la Kersevan, “è all’ origine di tutti gli equivoci nati dalla legge”: la data della firma del trattato di pace viene collegato al dramma dell’esodo ma “attribuire alla pace e non alla guerra voluta dal fascismo il dramma delle nostre terre è evidentemente una scelta fuorviante: è stata la guerra e le aggressioni che hanno determinato la perdita della Venezia Giulia non il trattato di pace che semplicemente ha decretato la fine di un contenzioso”. Infine, “si è voluto far conseguire l’esodo dalla paura per gli infoibamenti mentre l’esodo è cominciato molto prima ed è continuato a lungo molto dopo”. Insomma “si è parlato di pulizia etnica nei confronti degli italiani quando le documentazioni riguardanti gli scomparsi indicano chiaramente che la gran parte furono colpiti sulla base della loro adesione al fascismo”.
Alessandra Kersevan, le foibe e la sospensione della democrazia
Orwell in Italia, l’invenzione delle foibe

Non si tratta di nemmeno un’occasione per fare storia, anche se ce ne sarebbe un gran bisogno, rimettendo al centro dell’attenzione eventi già a lungo discussi quando la storiografia del ‘900 italiano è tutta da riscrivere. Parlare di questo lavoro documentario è invece mettere in evidenza lo sbarco di Orwell in Italia, che con l’invenzione delle foibe ha scritto un capitolo sinistro della verità istituzionale che si fa verità di fatto in concorso con il potere mediale.

Dal punto di vista istituzionale questa è stata l’occasione per fare una storia che guarda direttamente alla politica del presente. Creando eventi che mettono in secondo ordine l’origine della costituzione nella lotta partigiana si sono poste le premesse storiografiche per il suo sgretolamento da destra, per un nuovo assetto costituzionale decisionista e liberista. E i teorici dell'”uscita dal ‘900″, nella fretta di sbarazzarsi di un patrimonio storico e nel tentativo di traghettarsi in ogni porto, hanno contribuito ad accellerare questo processo che di emancipatorio non ha proprio nulla e porta le inquietanti caratteristiche dell’invenzione statale e mediale della verità. E siamo arrivati a chi ha tutto da perderci in questo emergere di un nemmeno tanto informale ministero della verità: eppure leggi di esponenti verdi che parlano di “pulizia etnica” dei “comunisti” come se fosse successo davvero, per non parlare del presidente della Camera che qualche mese fa ha tenuto un convegno dove, equiparando i gulag a questo fenomeno mai esistito in questi termini, neanche si è soffermato un attimo sulle fonti documentarie.
L’ha ribloggato su IL GIORNALE DEL RICCIO.
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