Nel 2013, dopo l’ultima grande fatica segnata dal lungometraggio “Si alza il vento”, il cofondatore dello Studio Ghibli, il maestro Hayao Miyazaki, annuncia in una conferenza stampa che quell’ultimo capolavoro segna il proprio ritiro dal mondo dell’animazione; i tempi per un qualsiasi progetto non sarebbero sostenibili per la sua avanzata età.
Così inizia il documentario della NHK, proprio da un epilogo.
Un epilogo che in realtà non durerà molto; un antico progetto, rimasto per anni solamente uno scarabocchio nelle affollate carte di Miyazaki, il bruco Boro, viene scelto dal regista per creare il suo primo lavoro in computer grafica (CGI), un piccolo cortometraggio per il sempre affollatissimo Museo Ghibli. Perché nonostante la sua età, il simboleggiare l’antica arte della matita e della carta a cui, fino alla morte, non rinuncerà; Miyazaki è un uomo moderno e antico allo stesso tempo, aperto nella mente e non ostile al contributo che la modernità può offrire, senza opporsi ad un processo ineluttabile. Apertura, sempre e comunque, con la propria matita ben stretta nella mano.
Mentre scorrono i giorni di lavorazione, si osserva il suo approccio, meticoloso, maniacale, alla ricerca continua non della perfezione ma dell’emozione che può trasmettere anche il minimo movimento di un piccolo pelo su di un piccolo bruco.
Nello stesso tempo, le telecamere entrano nella dimensione privata, così fusa e difficile da distinguere da quella lavorativa, per una persona che ha reso l’essenza della propria personalità, il proprio lavoro. E troviamo il Miyazaki del tè, delle tante e continue sigarette, del ramen così simile a quello che faceva gustare alla piccola Ponyo; ma anche il Miyazaki dei dolori fisici su di un corpo troppo consumato dai ripetuti gesti di matita, dei continui e sempre più insopportabili funerali dei propri amici, le domande esistenziali di un anziano cosciente della propria maturità e della sua prossima partenza. Coerente e ineluttabile, come la modernità.
Ritorna continuamente lo scontro tra i due mondi, antico e moderno, a cui il grande maestro assolutamente non si oppone, ma semplicemente, non riesce ad adeguarsi… Frase applicabile non solo alla sua arte, al disegno e al lavoro, ma anche e soprattutto a questa società. La moralità, il rispetto, il sentimento, rimarranno sempre parte integrante di quel mondo, lo Studio Ghibli, che ha creato ed è parte e specchio di se stesso.
Significativo il passo in cui i ragazzi mostrano al maestro i movimenti impossibili che un modello ripugnante riesce ad eseguire grazie alla computer grafica, aggiungendo che il modello, non prova dolore. Il padre di Nausicaa, visibilmente scosso, risponde che quella scena comporterebbe dolore per una persona che determinati problemi li ha veramente e li combatte tutti i giorni, portando l’esempio di un suo vicino di casa. Determinati ragionamenti e mancanze di sentimento, anche solo come prova, non sono accettate all’interno dello Studio Ghibli e fuori devono rimanere.
Durante il difficile progetto del corto “Boro”, dove collaborano talentuosi esperti giapponesi di CGI, Miyazaki sente la voglia e la necessità di riprendere la matita per un ultimo lungometraggio. Perché in realtà quel gesto, il tracciare un’emozione tramite grafite su carta, eseguito da sempre e professionalmente da oltre 50 anni, non è un lavoro, ma è Miyazaki stesso, tanto quanto l’anziano che al mattino beve tè, fuma sigarette e guida una vecchia Citroen 2CV.
Comprende che non può smettere di essere se stesso.
Il documentario, forse troppo breve, a tratti poco approfondito e dal finale non brillante, ci regala comunque un prezioso documento su uno dei massimi geni dell’arte del ‘900, composto dal suo lavoro, dalle sue riflessioni e dai suoi gesti quotidiani: dalle caramelle ai bambini che passano davanti la sua dimora, al sistemare sul tetto le caprette di Heidi.
Non sappiamo se il lungometraggio in lavorazione sarà in realtà l’ultimo di Miyazaki, perché questo documentario ci fa comprendere che le opere del maestro finiranno non quando lo deciderà in maniera cosciente, ma quando la vita segnerà con la propria matita la fine di quel piccolo grande giapponese dai capelli bianchi che afferma:
“Preferisco morire pensando che devo continuare a vivere.”
Colasanti Marcello
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