Proponiamo questo articolo pubblicato su molti siti d’informazione e pagine di social network francesi, dove si racconta un grave atto di violenza e abuso da parte della polizia parigina, oramai quotidiano.
Attualmente la Francia ha adottato lo “Stato di emergenza”, prolungato fino alla fine di Gennaio 2017, misura che conferisce poteri speciali alle autorità amministrative e ai corpi di polizia, limitando le libertà fondamentali come quella di movimento, di soggiorno, chiusura dei luoghi pubblici, modalità più repressive nei fermi e nelle perquisizioni.
Come da “Diritto internazionale”, regolamentato nella “Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici”, uno Stato di emergenza non può violare i più elementari di questi diritti, come quello “alla vita”, la libertà di pensiero, coscienza e religione, il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti.
All’effettivo anche quest’ultimi sono attualmente violati, come si può leggere in questo breve racconto che rappresenta solo un singolo episodio ma che avviene quotidianamente soprattutto nei sobborghi francesi, generalmente non denunciato per paura di rappresaglie da parte delle forze dell’ordine.
Come storicamente è accaduto, eventi gravi e scioccanti (a volte inevitabili, a volte alimentati e voluti…) , vengono utilizzati per applicare politiche e metodi repressivi sotto la tacita accettazione della popolazione fortemente influenzata dalla paura, che in altri contesti mai avrebbe ceduto a tali privazioni di libertà e diritti acquisiti con anni di sofferenza e lotte.
Questa repressione, fatta passare per “indispensabile” e “necessaria”, è funzionale contro quei settori che il potere attuale ha interesse a reprimere (come in questo caso, su avversari politici ed etnie particolari), ma inefficace contro le stesse organizzazioni terroristiche che utilizzano canali ben diversi da quelli quotidiani.
Queste limitazioni toccheranno e danneggeranno solo ed esclusivamente il libero cittadino, non i diretti interessati, terroristi o chicchessia.
La paura, da sempre, è il miglior strumento di controllo delle menti a disposizione dei poteri dominanti, unitamente all’ignoranza popolare che cancella la coscienza del proprio ruolo di classe, dei propri diritti e funzionalità degli stessi.
La situazione francese, attualmente, è molto più grave della nostra, ma guardandoci intorno attentamente, molte situazioni si stanno verificando nella stessa medesima condizione: l’Esercito, corpo che deve assolutamente e necessariamente rimanere staccato dalla parte civile dello Stato (punto fondante fin dai tempi della Repubblica Romana…) e che nessun potere deve avere rispetto a un libero cittadino (per questo, esistono le Forze dell’Ordine); lo avremmo mai accettato all’interno di ogni stazione della metropolitana, con un fucile in spalla e con il potere di fermare qualsiasi civile arbitrariamente sospettato, in un’altra situazione o periodo?
E siamo sicuri che, in caso di reale emergenza, un ragazzo poco più che ventenne con un fucile d’assalto in mano, in mezzo a una folla di civili, sia più una sicurezza che un pericolo?
Una situazione a dir poco colombiana…
Prima dell’articolo francese, le parole di Noam Chomsky:
““Problema – Reazione – Soluzione”
Si crea un problema, una “situazione” prevista per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare.
Ad esempio: lasciare che dilaghi o si intensifichi la violenza urbana, o organizzare attentati sanguinosi, con lo scopo che il pubblico sia chi richiede le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito della libertà. O anche: creare una crisi economica per far accettare come un male necessario la retrocessione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.”
Colasanti Marcello
La testimonianza:
Uscivo da una stazione della banlieue con un’amica, a fine giornata. Sul punto di passare i tornelli, sentiamo delle urla. Non un grido normale, un grido di dolore, intenso. Capiamo immediatamente che sta succedendo qualcosa. L’attenzione nostra e della gente che ci sta attorno è attirata da una scena che si svolge alla nostra sinistra. Una donna nera di una cinquantina d’anni è ammanettata, e urla che le manette le tagliano i polsi, che non ne può più. Tra lei e il piccolo capannello di persone che si è formato, una trentina di poliziotti equipaggiati, con un cane d’assalto. C’è la sicurezza ferroviaria e la polizia nazionale.
Le persone sono inquiete, l’atmosfera tesa, tutti domandano cosa stia succedendo e perché questa donna viene torturata nel mezzo della strada. La scena colpisce, ricorda quella che è seguita all’assassinio di Adama, ricorda le immagini delle mobilitazioni negli Stati Uniti: una fila di poliziotti, di fronte a un’altra fila di abitanti neri della città. Questi ultimi sono bianchi e completamente diffidenti. Un uomo racconta come suo fratello fosse stato fermato senza ragione, preso in custodia e malmenato. La polizia ci dice di “levarci di torno”.
Avevo paura. Per la vittima del fermo, per questa scena razzista. Mi sembrava che la polizia potesse andare fuori controllo in qualsiasi istante. Ho preso il telefono per filmare la scena, dicendomi che questo avrebbe potuto contenere la situazione, far scendere il livello di impunità. Ma non è durato che un minuto. Uno dei poliziotti mi prende per la spalla sinistra e mi fa girare: “A questo facciamo un controllo di identità”. Domando perché, mi strappa il telefono. Gli dico che non ha il diritto di consultarlo senza un mandato di perquisizione.
Tutto accelera: appena riescono a tirarmi dal loro lato del cordone formato dagli altri sbirri, si mettono in due sopra di me, ognuno torcendomi un braccio. Un dolore enorme mi attraversa le articolazioni. Ho le due braccia torte contro la schiena, con questi due uomini messi in posizione strategica, a premere con tutta la loro forza per schiacciarmi contro il muro. A più riprese, mi liberano appena e poi mi spingono di nuovo, per farmi sbattere contro la parete. All’inizio, ho pensato che si trattasse giusto di intimidirmi e tenermi buono. Ma non mollano. Ho il fiato corto e non protesto più, mi dicono che mi rinchiuderanno per “oltraggio” o “resistenza”, e cercano di creare accuse dal nulla.
Il peggio in realtà non è il dolore. I due poliziotti che mi stanno addosso sono sovraeccitati. E si lasciano andare. Crani rasati, occhi che brillano, faccio fatica a credere che la situazione sia reale. “Ti ammazziamo, sei morto, ti disfiamo, ti distruggo qui sul posto in dieci minuti”. E man mano le cartilagini si tirano sotto la loro presa, mi spingono le mani sulla schiena, e fanno aumentare la torsione. La guardia che sta alla mia sinistra mi mette la mano sul sedere. “Credevi di giocare con la polizia? Guarda come giochiamo noi con te”. E mi sferra un primo calcio. Poi mi rimette la mano sul sedere. Con le braccia messe così, non posso respirare normalmente. Un altro calcio. “Ti violentiamo, ti piace l’idea? Ti stupro e vediamo quanta voglia ti rimane di filmare la polizia”.
E continua. “Sostieni Daesh, è così?”, “Quando arriveranno tu cosa farai? Glielo succhi?”, “A quel punto non ci sarà da piangere ma da chiedere che ti si protegga”. Ho realizzato solo in un secondo momento, che parlavano di Daesh per giustificare il loro comportamento verso una donna razzializzata, che aveva dimenticato il proprio abbonamento metro.
Mi aprono lo zaino e mi prendono il portafogli, me lo svuotano sulla schiena. Mi prendono le sigarette, e mi dicono di sedermici sopra. Trovano la mia carta di insegnante universitario precario. “Sei professore? Quando lo Stato Islamico verrà alla Sorbona, li starai a guardare mentre ti fai una sega?” E la guardia a sinistra: “Guardami, sporco frocio. Puttana. Abiti lì eh? (indica il mio palazzo). Vengo da te, con un passamontagna, e ti stupro”. Sono completamente scioccato, penso abbia ripetuto le stesse minacce una ventina di volte in tutto. Sto avendo a che fare con delle guardie politicizzate, delle guardie dello stato d’emergenza permanente, che si sentono in guerra contro Daesh, un Daesh che associano a qualsiasi persona razzializzata, un Daesh con cui io mi sarei alleato nel momento in cui ho solidarizzato con la loro vittima giornaliera.
Rincarano ancora un po’ la dose. “Ora ti facciamo un po’ provare il taser, vedi un po’ come pizzica”. E sempre la guardia di sinistra, mi dà una scarica nel braccio. Sobbalzo, e mi metto a tremare. Cerco di non mostrarlo, non dico nulla, ma il pensiero che mi viene in quel momento è che la situazione rischia di andare ulteriormente fuori controllo. Che mi torceranno ancora il braccio, o che mi colpiranno col tonfa prima di caricarmi e portarmi via. “Tu muori”. “Ti inculo”. Parole sempre seguite da palpate. E il male nelle braccia, nelle spalle, nella schiena è così forte che mi dico che mi devo preparare mentalmente a una frattura.
Dietro, sento la mia amica che urla, che gli dice di lasciarmi andare. Vorrei dirle di lasciar perdere. Ho il peso sullo stomaco di cosa le potrebbero fare se la fermano. Ma nel frattempo il capannello di gente è forse aumentato, e il gruppo di poliziotti sa di non poter far durare la situazione per sempre. La guardia che mi torce il braccio destro mi dice: “Bisogna che prendiamo la tizia, la accusiamo di resistenza”.
Sento che discutono tra loro. Uno dei due uomini mi molla il braccio e mi dice: “Guarda il muro. Se ti giri, se ti muovi, ti apro il cranio”. Non mi muovo. “Verremo alla Sorbona, sterminiamo te e i tuoi colleghi, sporco sinistroide”. Poi mi girano e mi trovo davanti gli occhi sporgenti della guardia che mi teneva il braccio sinistro. “Sei a contratto, bastardo? Ti facciamo un rapporto pesante, la tua posizione te la puoi infilare nel culo”. Non dico niente. Mi premono sul petto. “Ora sblocchi il telefono e cancelli il video”. Eseguo, dicendomi che è nella testa e non in queste immagini ferme di un assembramento, che è inciso quello che è appena successo. Mi strappa il telefono, apre la cartella delle foto, e inizia a guardare tutto.
Poi di colpo, il resto del loro gruppo carica gli abitanti che si erano raggruppati. Rapidi ed estremamente violenti. Vedo i loro cani che si lanciano sulle persone, le guardie con lo spray e i manganelli. Tutt* scappano, in panico, comprese le persone anziane. Le due guardie che mi hanno aggredito mi lanciano il portafoglio e il suo contenuto, e partono correndo. Ho paura per la mia amica, non la vedo. Ma finalmente noto che sta tornando verso di me, è riuscita a scappare. Non c’è altro da fare che tornare a casa, la rabbia che mangia lo stomaco, il torso anchilosato e dolorante. Mi dico che questa polizia razzista si sarebbe spinta molto oltre se fossi stato una persona razzializzata. Un uomo ci spiega che è così in tutta la città da questa mattina. “Vedete non ci si fa nulla, molestano la gente a caso per far nascere dei problemi”. Ci confortiamo a vicenda, augurandoci buona fortuna. Ce ne sarà bisogno, ma non ne siamo certo privi.
Ritornando a casa, ho pensato al pezzo di D’ de Kabal, che racconta esattamente la stessa scena: LA CANZONE
LA TESTIMONIANZA ORIGINALE
Je sortais d’une gare de banlieue avec une copine, en fin de journée. Au moment de passer les tourniquets, on entend des hurlements. Pas un cri normal, mais un cri de douleur, intense, et l’on comprend immédiatement qu’il se passe quelque chose. Comme tous les autres à côté de nous, mon regard est capté par la scène qui se déroule sur notre gauche. Une femme noire d’une cinquantaine d’années est menottée, et c’est elle qui hurle que les menottes lui broient les mains, qu’elle n’en peut plus. Entre elle et le petit attroupement d’habitants qui s’est formé, une trentaine de policiers équipés, avec un chien d’assaut. Il y a la sûreté ferroviaire et la police nationale.
Les gens sont inquiets, l’ambiance est très tendue, tout le monde demande ce qui se passe, pourquoi ils torturent cette femme en pleine rue. La scène est marquante, elle ressemble à cet été après l’assassinat d’Adama, ou aux images de la mobilisation aux Etats-Unis : une rangée de policiers, face à une autre rangée d’habitantes et habitants noirs de la ville. Ces derniers sont clairs, ils n’ont aucune confiance. Un homme raconte comment son frère a été interpellé sans raison, mis en garde à vue et violenté. Les flics nous disent de « nous casser ».
J’avais peur pour la victime de cette interpellation, peur de cette scène raciste, je voyais la police déraper à tout moment. J’ai sorti mon téléphone pour filmer, en me disant que cela pourrait cadrer les choses, faire baisser le niveau d’impunité. Ça n’a pas duré plus d’une minute. L’un des flics m’attrape par l’épaule gauche et me fait pivoter : « celui-là on lui fait un contrôle d’identité ». Je demande pourquoi, il m’arrache mon téléphone. Je lui dis qu’il n’a pas le droit de le consulter sans mandat de perquisition.
Mais tout s’accélère : dès qu’ils ont réussi à me tirer de leur côté du cordon formé par leurs collègues, ils se mettent à deux sur moi, chacun me faisant une clé à l’un des bras. Une douleur énorme me traverse les articulations. J’ai les deux bras torsadés dans le dos, avec ces deux hommes dans des positions qu’ils ont apprises, qui pèsent de toute leur force pour me plaquer contre le mur. À plusieurs reprises, ils m’écartent un peu et me rebalancent, pour que je me cogne. J’ai d’abord pensé qu’il s’agissait juste de m’intimider et de me mettre à l’écart. Mais ils ne relâchent pas. J’ai le souffle coupé et je ne proteste plus, je me dis qu’ils vont m’embarquer pour « outrage » ou « rébellion », et sont en train de chercher à créer des faits de toutes pièces.
Le pire en réalité n’était pas la douleur. Les deux flics qui sont sur moi sont surexcités. Et ils se lâchent. Crânes rasés, les yeux brillants, j’ai du mal à croire que la scène qui suit est réelle. « On va te tuer, tu es mort, on va te défoncer, je te crève là sur place dans dix minutes ». Et au fur et à mesure que les cartilages s’étirent sous la torsion, ils remontent mes poignets dans mon dos, et augmentent la torsion. Celui de gauche me met la main sur les fesses. « T’as cru que t’allais jouer avec la police ? Regarde comme on va jouer avec toi ». Et il me met une première béquille. Puis il remet sa main sur mes fesses. Avec les clés de bras, je ne peux plus respirer normalement. Nouvelle béquille. « On va te violer, ça te plaît ça ? Je vais te violer et on va voir si après tu filmeras la police ».
Ça continue. « Tu soutiens Daesh c’est ça ? ». « Quand ils vont venir tu feras quoi ? Tu vas les sucer ? ». « Faudra pas pleurer et demander qu’on te protège ». Je n’ai réalisé que plus tard qu’ils étaient en train de parler de Daesh… pour justifier leur attitude face à une femme racisée qui avait oublié son pass navigo.
Ils ouvrent mon sac et prennent mon portefeuille, le vident dans mon dos. Ils me prennent mes clopes en me disant de m’asseoir dessus. Ils trouvent ma carte de prof précaire à la fac. « T’es prof ? Quand l’État islamique viendra à la Sorbonne tu vas les regarder en te branlant ? ». Celui de gauche : « Regarde-moi, sale pédé. Sale pute. Tu habites là-bas hein ? (il montre mon immeuble). Je vais venir chez toi, je vais mettre une cagoule et je vais te violer ». Je suis vraiment abasourdi, je pense qu’il a répété les mêmes menaces une bonne vingtaine de fois en tout. J’ai affaire à des flics politisés, des flics de l’état d’urgence permanent, qui se vivent comme en guerre contre Daesh, un Daesh qu’ils assimilent à toute personne racisée, et avec qui j’aurais pactisé en me solidarisant de leur victime du jour.
Ils montent encore d’un cran. « Maintenant on va te mettre des coups de tazer, tu vas voir comment ça pique ». Et, toujours celui de gauche, m’envoie une décharge dans le bras. Je sursaute, et je me mets à trembler. J’essaie de ne pas le montrer, je ne dis rien, mais la pensée qui me vient à ce moment est que la situation va peut-être déraper encore plus. Qu’ils vont me faire une autre clé, ou me frapper avec leur tonfa avant de m’embarquer. « Tu vas crever ». « Je vais t’enculer ». Avec toujours les attouchements. Et la douleur est telle dans les bras, les épaules, le dos, que je me dis que je dois me préparer à ce qu’une de mes articulations lâche.
Derrière, j’entends la copine avec qui j’étais qui crie, qui leur dit de me lâcher. Je voudrais lui dire de laisser tomber. J’ai une boule au ventre : qu’est-ce que ces tarés lui feront s’ils l’interpellent ? Mais entretemps, l’attroupement a probablement un peu grossi, et le groupe de policiers doit savoir qu’il ne peut pas faire durer indéfiniment la situation. Celui qui me torsade le bras droit me dit : « Il faut qu’on chope la meuf, on la charge pour appel à rébellion ».
J’entends qu’ils discutent entre eux. Un des deux hommes me lâche le bras et me dit : « Tu regardes le mur, si tu te retournes, si tu bouges, on t’ouvre le crâne ». Je ne bouge pas. « On va venir à la Sorbonne, on va vous exterminer toi et tes collègues, sale gauchiste ». Puis ils me retournent et je me retrouve devant les yeux exorbités du flic qui me tenait le bras gauche. « T’es contractuel sale bâtard ? On va te faire un rapport salé, ta titu tu peux te la mettre ». Je ne dis rien. Ils m’appuient sur la poitrine. « Maintenant tu déverrouilles ton téléphone et tu effaces la vidéo ». Je m’exécute, en me disant que c’est dans ma tête et pas sur ces images de l’attroupement statique que ce qui vient de se passer est gravé. Il m’arrache l’appareil, et ouvre le dossier photo, commence à tout regarder.
Puis tout à coup, le reste de leur groupe charge les habitants qui s’étaient regroupés. C’est rapide et extrêmement violent. Je vois leur chien se jeter sur les gens, et eux avec les gazeuses et les tonfas. Tout le monde fuit, en panique, y compris les personnes âgées. Les deux policiers qui m’ont agressé me jettent mon portefeuille et son contenu à la figure et partent en courant. Je crains pour mon amie, je ne la vois pas. Mais je l’aperçois finalement qui revient, elle avait réussi à s’échapper. Rien à faire d’autre que rentrer chez nous, la rage au ventre, et tout le torse ankylosé et douloureux. Je me dis que cette police raciste serait allée encore plus loin si j’étais racisé. Un homme nous explique que c’est comme ça dans toute la ville depuis ce matin. « Vous voyez, on ne fait rien, mais ils tabassent des gens au hasard pour susciter des troubles ». On se réconforte mutuellement, se souhaite bon courage. Il en faudra ; mais on n’en manque pas.
En rentrant, j’ai repensé à un morceau de D’ de Kabal, qui raconte exactement la même scène : LA CANZONE
Un pensiero riguardo “Francia e violenze poliziesche: “Vengo da te e ti stupro.” La repressione propagandata come sicurezza.”