Julien Sorel, protagonista de Il rosso e il nero di Stendhal, è un personaggio che rimane in parte indefinito: i suoi moventi, i suoi fini e il suo carattere restano inafferrabili, avvolti nel mistero, così come il gesto finale, il discorso rivolto ai giudici che chiude il processo, clamoroso colpo di scena che capovolge le sorti del personaggio e lo porta all’annientamento. Comporre un quadro definito di un personaggio indefinito sarebbe una forzatura critica, perché Julien è un personaggio volutamente incompiuto, un giovane la cui esperienza biografica si conclude drammaticamente prima che determinate tendenze caratteriali possano maturare in una direzione o nell’altra. Tuttavia, indagare i contorni di tale indeterminatezza, illuminare, attraverso l’indagine, quelle zone in cui il carattere e le intenzioni di Julien emergono con maggiore chiarezza e osservare quelle in cui, invece, si inabissano, senza possibilità di riscatto dall’ombra, può essere un’operazione di grande interesse. Julien Sorel è un personaggio tanto indeterminato quanto unico, eccezionale. In cosa consista tale straordinarietà non appare però con chiarezza. La ricerca verterà dunque sull’identità di Julien Sorel, indagata attraverso le azioni e i giudizi del protagonista stesso e degli altri personaggi. Essa sarà poi posta in relazione con quella di un altro eroe sorto dalla temperie romantica, Jacopo Ortis, protagonista del romanzo foscoliano Ultime lettere di Jacopo Ortis, per molti aspetti affine a Il rosso e il nero.
Julien Sorel è presentato, sin dalla prima comparsa sulla scena del romanzo, nel segno della doppiezza, della polarità irriducibile tra un opposto e l’altro. Da subito spicca il contrasto netto tra la gracilità fisica e la fermezza incrollabile del carattere. Julien è di fragile apparenza e ha lineamenti così delicati e dolci da ricordare la fisionomia di una ragazza: “Tale era il ragazzo di diciannove anni, ma di così fragile aspetto da dimostrarne al massimo diciassette.” In tali fattezze, tuttavia, è già iscritta la singolarità che contraddistingue il suo temperamento (“tra le innumerevoli varietà della fisionomia umana, forse non ne esiste alcuna così caratteristica”). Ma Julien è votato anima e corpo alla più sfrenata ambizione, dotato di un’indole passionale, fiera e collerica. Orgoglioso, di animo nobile e di spiccata fantasia, ma soprattutto capace delle più folli e coraggiose imposizioni su se stesso, può dirsi senza dubbio un essere singolare. Internamente alla sua natura due serie contrapposte di qualità si scontrano e in qualche modo ingaggiano una guerra senza possibilità di conciliazione. Da una parte si schierano la timidezza, l’ingenuità, l’inclinazione all’indecisione e alla fantasia, la sensibilità verso la bellezza e la passione. Quest’ultima, in quanto “ardore cupo” o “cupa fiamma”, fa da ponte all’altra serie di prerogative del suo carattere: l’“orgoglio morboso”, la “nera ambizione”, la freddezza, il distacco, il senso di disprezzo verso gli altri, che lo infiamma e il terrore del disprezzo da parte degli altri, che gli fa orrore. La passione è un anello di congiunzione perché il fuoco che lo anima e lo divora non si spegne mai (la fiamma del rosso resta sempre accesa sotto il velo del nero, per questo sono possibili una “passione ipocrita” o un’“ipocrisia passionale”). Questo contrasto sempre vivo (“la spaventosa lotta del dovere contro la timidezza”) fa di lui uno “strano essere, sempre in tempesta”.
Un particolare meccanismo repressivo, continuamente messo in atto da Julien, attraverso la auto-imposizione del dovere, sembra particolarmente atto a illustrare la genesi della doppiezza dei suoi atteggiamenti. Ogniqualvolta Julien si sente, a torto o a ragione, disprezzato, il suo orgoglio ne esce mortalmente ferito e reagisce, a sua volta, disprezzando. I passaggi da uno stato d’animo all’altro sono, in genere, così repentini da provocare inquietudine o quantomeno stupore negli interlocutori fatti oggetto di tale disprezzo. Allo stesso modo, per allontanare il timore dell’umiliazione o per scansare il rischio di cadere nel ridicolo, Julien si sforza costantemente di soffocare le proprie passioni e i moti più spontanei dell’animo. L’ipocrisia di Julien non è altro che la ferrea imposizione su di sé di una tirannica idea del dovere divenuta legge. Di qui derivano i bruschi comportamenti di freddezza e ostilità, che portano con sé un’espressione di cattiveria o addirittura di ferocia. All’inizio del romanzo, Julien appare non ancora in grado di controllare la dinamica dell’ipocrisia (man mano imparerà a utilizzarla adeguatamente, in una sorta di percorso di formazione sempre aperto e irrisolto), infatti è proprio la dissimulazione a farlo cadere nel ridicolo, nel paradossale, in atteggiamenti folli ed euforici o impacciati e goffi, trasformandolo in uno sciocco e impedendogli spesso di valutare correttamente, in maniera oggettiva e distaccata, le situazioni. Questo rende il suo una sorta di romanzo di formazione impossibile, o quantomeno imperfetta, sia perché continuamente ostacolata dalla tendenza alla repressione, sia perché Julien resta sempre svincolato da un quadro di riferimento, non integrandosi in nessun ambiente e non facendo proprie le regole e le consuetudini sociali ad esso relative. Un personaggio che dimostra di avere chiara consapevolezza della condotta tipica di Julien è l’abate Pirard che, alla fine della lunga conversazione con il marchese de la Mole che deciderà le sorti del suo protetto, aggiunge: “Dimenticavo una precauzione […], il ragazzo, benché di umilissima origine, è molto altero: non vi servirà a niente se urterete il suo orgoglio. Ne fareste uno stupido”. Il processo di repressione, sopprimendo la spontaneità, uccide la felicità nel cuore di Julien. Ciò accade tanto nella relazione con Madame de Rênal (“L’idea del dovere da compiere e del ridicolo, o meglio del senso d’inferiorità in cui sarebbe incorso in caso di fallimento, allontanò immediatamente ogni piacere dal suo cuore”), quanto in quella con Mathilde (“Julien l’abbracciò, ma subito il pugno di ferro del dovere tornò a stringergli il cuore. ‘Se vede quanto l’adoro, la perdo’”), anche se in questo caso la situazione è molto diversa. L’ipocrisia, con Madame de Rênal, risulta perdente, perché qualsiasi atteggiamento che preveda il calcolo è del tutto estraneo al suo modo di fare. È, invece, proprio l’applicazione ormai sapiente e giustamente cadenzata dei principi dell’ipocrisia l’unico strumento che permette a Julien di riconquistare il cuore dell’altera Mathilde. L’ipocrisia è dunque un mezzo utilizzato da Julien per adempiere ai suoi “folli disegni”, i progetti di fare fortuna, ed è da praticarsi giorno per giorno, con incessante applicazione e tramite un incommensurabile sforzo su se stesso, ma non si dice mai che Julien è ipocrita per natura. Sono illuminanti, a riguardo, le parole del marchese de La Mole, che forse, fra tutti i personaggi, è il più simile al protagonista e quindi il più capace a decifrarne i comportamenti: “No, egli non possiede l’abile e diffidente talento del profittatore che non perde un minuto né un’occasione… Non ha un carattere alla Luigi XI. D’altra parte, se ne viene poi fuori con le massime più egoistiche… Non mi ci raccapezzo… O forse si ripete quelle massime per farne una diga contro le proprie passioni?”
Il senso d’inferiorità di Julien è evidentemente nutrito dal disprezzo di cui è stato oggetto sin dalla culla, soprattutto da parte del padre. Non a caso le manifestazioni d’amore sincero lo portano a svincolarsi dalla propria parte e gli permettono un ritorno all’autenticità, che si manifesta in folli slanci di passione o in brillanti lampi di spirito. In momenti del genere, Julien si sente vincere dalle lacrime o inondare dalla gioia, si libera dall’ipocrisia e può tornare a fruire della felicità, seppure per momenti brevissimi, perché sempre seguiti da nuove imposizioni di dovere, che si susseguiranno fino a quando non sarà più possibile tornare indietro, dopo l’ultima, terribile auto-inflizione: “‘Ecco che comincia l’ultimo dei miei giorni’, pensò Julien. Immediatamente egli si sentì infiammato dall’idea del dovere”. Alla fine del processo, Julien prende la parola e si pone di fronte alla giuria come un escluso che ha contravvenuto alle regole sociali, autocondanna questo sconfinamento di classe come un crimine, un’imperdonabile violazione. È forse, questo più o meno consapevole suicidio, l’ultimo (o unico?) atto eroico possibile nella dimensione dell’età della Restaurazione post-napoleonica?
Raccogliendo le suggestioni del saggio di Émile Durkheim, Il Suicidio, l’educazione morale, si può guardare al suicidio di Julien, se così decidiamo di definire la sua morte, come il risultato di una commistione di spinte egoistiche e anomiche. Lo stato di anomia in cui Julien vive “apre la porta alle illusioni, e, quindi, alle delusioni”[12]: anche nel caso in cui il desiderio sia realizzato, esso porta con sé un’immancabile delusione, perché subito vi si sostituisce una nuova proiezione desiderante. Durkheim chiama egoismo lo stato di eccessiva affermazione dell’io individuale nei confronti di quello sociale e suicidio egoistico quello che sfocia da tale stato di cose. Stabilisce l’importanza della società in quanto ne riconosce l’indiscutibile influenza moderatrice sul suicidio, a prescindere che essa sia religiosa, domestica o politica. Julien appare irrelato a tutte e tre le forme collettive sopra citate, e lo stesso varrà, in modo differente, per Jacopo Ortis. La spinta al suicidio è inversamente proporzionale al grado di integrazione in una società. È significativo il fatto che il discorso “suicida” di Julien sia rivendicativo proprio del suo distacco dalla società di cui fanno parte i membri della giuria, rispetto alla quale ammette di essere un infiltrato illecito (“Signori, non ho l’onore di appartenere alla vostra classe sociale”). Lo stato di anomia risulta inoltre acutizzato se si tiene conto della prospettiva e del pensiero di René Girard. Nel XIX secolo “trionfa la mediazione – cioè l’imitazione – interna in un universo in cui vanno scomparendo a poco a poco le differenze fra gli uomini.”[14] Così “tutti i desideri intensi di Julien sono desideri secondo l’altro”[15]. Solo alla fine del romanzo, nella solitudine della prigione, Julien acquista maggiore coscienza di quanto i suoi desideri siano stati frutto della propria vanità e non a caso riscopre in sé l’amore per Madame de Rênal.
Qualunque personaggio si trovi a contatto con Julien è portato a constatarne la straordinarietà, ad amarlo e ammirarlo per il suo ingegno, oppure a disprezzarlo e odiarlo per la sua diversità e per il modo imprevisto di agire. Tanto in provincia quanto nella capitale, in ambienti borghesi o nobiliari, la sua presenza apporta novità, svago, diversione e distrazione dalla noia, vera e propria piaga, quest’ultima, di un secolo e di una società che ha messo al bando qualsiasi forma di imprevisto, perché agli antipodi delle convenienze, che inorridisce di fronte al cattivo gusto e che ha esiliato il pensiero e il libero esame.
In ogni caso Julien Sorel rimane un personaggio sfuggente. Non è possibile leggere nel fondo della sua anima, per questo scatena reazioni così vive in chi incrocia il suo cammino, o meglio, la sua scalata verso la meta immaginata. Il marchese de La Mole, ancora una volta, intuisce il carattere inquietante del ragazzo (“ma in fondo al suo carattere c’è qualcosa che mi spaventa. È l’impressione che fa a tutti e che, quindi, deve contenere una certa verità.”) e avvisa, a riguardo, la figlia, con parole severe: “Tremate, piccola imprudente! Non so ancora che cosa sia il vostro Julien, e voi stessa lo sapete meno di me.” Forse “la stoffa era buona”, ci suggerisce Stendhal, “ma a che servono queste vane previsioni?”, aggiunge. Julien, la cui personalità si fonda solo su se stessa, non resta, necessariamente, che un “FORSE”.
Si è parlato di romanzo di formazione. Con l’avvento della modernità, epoca complessa e problematica, in cui vengono meno dei valori sentiti come stabili e ogni individuo detiene la libertà di farsi portavoce di valori propri, viene meno la produttività del Bildungsroman, di cui Moretti, nel suo saggio Il romanzo di formazione, prende come esempio paradigmatico il romanzo fine settecentesco Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister di Goethe. Qui il protagonista, dopo essere stato in qualche modo passivamente plasmato dalla società, raggiunge una felicità perfetta, suggellata dall’atto del matrimonio. Così finisce la Bildung e con essa il tempo della narrazione. Per questo tipo di romanzo è necessario un protagonista plasmabile: “non più solo e men che meno in lite con il mondo”[20], è necessaria una relazione di interdipendenza tra l’individuo e il contesto sociale: un “circolo perfetto” in cui il soggetto si forma solo subordinandosi alla società, e la società si legittima solo rendendo felice il soggetto. Nei romanzi stendhaliani la struttura del romanzo di formazione è radicalmente cambiata: l’eroe di questo tipo di romanzo non è docile e disposto a lasciarsi plasmare. Nel romanzo fine settecentesco i protagonisti creavano connessioni con la realtà, ora invece le spezzano. Ne Il rosso e il nero Stendhal inscena, tramite il personaggio di Julien Sorel, il dissidio tra interesse privato e integrazione sociale senza tentare di risolverlo in una sintesi. Per integrarsi nella società, di cui non condivide i valori, il protagonista è costretto a nascondere i propri. Ma ciò non equivale a sopprimerli. L’identità risente di questa situazione, perché per il personaggio la più profonda esperienza di sé consiste proprio nella percezione dei valori che è costretto a tenere nascosti, a tal punto che essi si presentano come il “nocciolo della propria identità”, “contratta in una zona non solo diversa, ma contraddittoria ed ostile al comportamento pubblico. È la zona dell’interiorità, intesa, nelle parole della Fenomenologia dello spirito, come legge del cuore in conflitto con il corso del mondo.”[21]
Anche Jacopo Ortis, protagonista del secondo romanzo preso in esame, si configura come un eroe energico, impulsivo, mosso da pulsioni asociali. Una differenza cruciale che sussiste tra i due personaggi è l’atteggiamento inverso rispetto alla simulazione: Jacopo si dichiara esplicitamente incapace di dissimulazione. Non siamo più di fronte a un personaggio che cela i propri valori in una parte profonda di sé: Julien, nascondendo gli ideali “del rosso”, si conforma poi a quelli “del nero” che lo circonda. Ortis, al contrario, rivendica energicamente i suoi ideali e questo lo porta a uno scontro frontale con la società (“poiché non so neppure combattere con la maschera della dissimulazione”).
Anche nel caso di Jacopo si ha l’alternarsi di due condizioni psichiche opposte, che sfociano in uno sdoppiamento della personalità. Sin da principio, cuore e ragione si attestano su posizioni avverse (“quando fui solo, la mia ragione, che è in perpetua lite con questo mio cuore, mi andava dicendo: Infelice! temi soltanto di quella beltà che partecipa del celeste: prendi dunque partito, e non ritrarre le labbra dal contravveleno che la fortuna ti porge. Lodai la ragione; ma il cuore aveva già fatto a suo modo”). Jacopo Ortis si mostra in possesso di una salda consapevolezza di sé, risultato di un indubitabile contatto tra opera letteraria e vita dell’autore, quantunque non sia possibile determinare fino a che punto personaggio e autore si sovrappongano o si discostino. L’autore stesso sembra voler lasciare la questione aperta: “L’unico che si possa dire ritratto dal vivo è di certo il protagonista. E l’autore merita lode […] per aver copiato con esattezza da se stesso, o da qualche altro individuo un carattere d’uomo, che quantunque non s’incontri frequentemente, si confessa a ogni modo che è carattere vero […]”[24]. La coscienza della scissione emerge chiaramente da una lettera inviata da Padova, successiva a quella datata 11 dicembre, in cui Ortis parla espressamente del proprio carattere, profilando due serie contrapposte di aggettivi, disposti in tricolon, che lo definiscono (“[…] questa indole mia altera, salda, leale; o piuttosto ineducata, caparbia, imprudente”). Ma se in un caso, quello di Julien Sorel, lo sdoppiamento genera ambiguità, mobilità e oscillazione, concretizzandosi in un personaggio indeterminato, nell’altro, quello di Jacopo Ortis, può generare al contrario solo immobilismo e paralisi. Siamo di fronte a un personaggio univoco, molto più saldo rispetto a Julien, quasi granitico, paralizzato cioè su un polo e sull’altro. I due poli si configurano come incomunicabili: tra essi si apre solo la disperazione mortale. Ne risulta un personaggio irrequieto, frenetico, inquieto fisicamente perché agitato da un’energia in eccesso che, non trovando sbocco, non è arginabile. Ortis vuole mantenere fissa su di sé l’idea dell’eroismo esemplare, così, mentre professa ideali incrollabili di virtù, lealtà e giustizia, è tormentato da quello che chiama il suo “demonio” o “demone”. Esso lo spinge verso pulsioni violente di prevaricazione, appropriazione egoistica e assolutistica, annientamento e distruzione. Tutto ciò avviene in un quadro di ingigantimento dell’ego che arriva, in un solipsismo assoluto, a inglobare tutto l’universo, vagheggiando di distruggerlo con sé (“Ahi Lorenzo! eccolo quel demonio mio persecutore; torna a incalzarmi, a premermi, a investirmi, e m’accieca l’intelletto, e mi ferma perfino le palpitazioni del cuore, e mi fa tutto ferocia, e vorrebbe il mondo finito con me.”). Ma i due “vasi” non sono comunicanti: tali pulsioni si scioglierebbero nel caso di violazione dei principi di virtù, in un’ipotetica, faustiana, adesione volontaria al male. Nel caso di Ortis, invece, l’unica via di uscita è il suicidio. L’energia in eccesso, però, erompe involontariamente, facendo di Jacopo Ortis un eroe che porta con sé scompiglio e distruzione: omicida e sucida. Appare emblematica, in questo senso, la scena del romanzo che descrive l’omicidio: “Era la sera; io vedeva sorgere un tempo nero, e tornando affrettavami: il cavallo divorava la via, e nondimeno i miei sproni lo insanguinavano; e gli abbandonai tutte le briglie sul collo, invocando quasi ch’ei rovinasse e si seppellisse con me. Entrando in un viale tutto alberi, stretto, lunghissimo, vidi una persona – ripresi le briglie; ma il cavallo più s’irritava e più impetuosamente lanciavasi. […] e fu investito, rovesciato, e le zampe gli frantumarono le cervella.”
Un ultimo aspetto rilevante, nell’ottica del confronto, riguarda l’estetica della passione che Stendhal e Foscolo sembrano condividere: verso la fine della lettera del primo novembre, viene introdotto un nuovo personaggio, il promesso sposo di Teresa (il “mediatore interno” di Jacopo Ortis, parlando in termini girardiani): “Buono – esatto – paziente! E niente altro? possedesse queste doti con angelica perfezione, s’egli avrà il cuore sempre così morto, e quella faccia magistrale non animata mai né dal sorriso dell’allegria, né dal dolce silenzio della pietà, sarà per me un di que’ rosaj senza fiori che mi fanno temere le spine.” Questa caratterizzazione è vicina a quella dei nobili amici di Mathilde, i conti Luz, Caylus e Croisenois, che aspirano alla sua mano. Tutti questi personaggi si configurano come noiosi e privi di vita: si avverte, da parte degli autori, il disprezzo per l’inerzia e l’assennatezza. Infatti, tanto Julien Sorel quanto Jacopo Ortis, non possono fare a meno di conformare la propria vita alle più ardenti e intense passioni.
[12] E. Durkheim, Il suicidio, l’educazione morale, Torino, Utet, 2008, p. 343.
[14] R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Milano, Bompiani, 2002, p. 17.
[15] Ivi, p. 22.
[20] F. Moretti, Il Bildungsroman come forma simbolica, in Il romanzo di formazione, Torino, Einaudi, 1999, p. 35.
[21] Ivi, p. 137.
[24] U. Foscolo, Notizia bibliografica intorno alle Ultime lettere di Jacopo Ortis, Zurigo, 1816, p. 283; cfr. p. 277: “Or quando l’autore ha con verosimiglianza ideato o cavato dal vero il contrasto, v’era egli necessità che la politica e l’amore cozzassero?”
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